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Musica rock e il suo oblio

Il 13 luglio del 1985, nello stadio di Philadelphia intitolato a John Kennedy, si tenne la parte americana di “Live Aid”, il più grande concerto della storia. Joan Baez, icona degli anni d’oro del folk politico agli inizi degli anni Sessanta, commosse ben 85mila persone. 35 anni dopo, nel 2020, Baez è stata premiata dalla Fondazione Kennedy.
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Musica rock e il suo oblio

Il 13 luglio del 1985, nello stadio di Philadelphia intitolato a John Kennedy, si tenne la parte americana di “Live Aid”, il più grande concerto della storia. Joan Baez, icona degli anni d’oro del folk politico agli inizi degli anni Sessanta, commosse ben 85mila persone. 35 anni dopo, nel 2020, Baez è stata premiata dalla Fondazione Kennedy.
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Musica rock e il suo oblio

Il 13 luglio del 1985, nello stadio di Philadelphia intitolato a John Kennedy, si tenne la parte americana di “Live Aid”, il più grande concerto della storia. Joan Baez, icona degli anni d’oro del folk politico agli inizi degli anni Sessanta, commosse ben 85mila persone. 35 anni dopo, nel 2020, Baez è stata premiata dalla Fondazione Kennedy.
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Il 13 luglio del 1985, nello stadio di Philadelphia intitolato a John Kennedy, si tenne la parte americana di “Live Aid”, il più grande concerto della storia. Joan Baez, icona degli anni d’oro del folk politico agli inizi degli anni Sessanta, commosse ben 85mila persone. 35 anni dopo, nel 2020, Baez è stata premiata dalla Fondazione Kennedy.
Il 13 luglio del 1985, nello stadio di Philadelphia intitolato a John Kennedy, alle 9 del mattino inizia la parte americana di “Live Aid”, il più grande concerto della storia, che si tiene contemporaneamente a Londra e in molti altri Paesi, Russia compresa. Introduce Jack Nicholson e si vede che la gente non sa perché. Quei giovani hanno dimenticato il suo ruolo politico nel film “Easy Rider”. Mentre parla, sul palco, l’attore si rende conto di essere fuori posto, e taglia corto.

Esce allora Joan Baez, che saluta dicendo «Buongiorno America, come stai?», cita Arlo Guthrie e un altro film fondamentale, “Alice’s Restaurant”.

La gente applaudicchia. Lei continua: «Questa è la vostra Woodstock, non dimenticate mai di esserci stati». Scende un silenzio strano, nel pubblico sventolano bandiere a stelle e strisce che a Woodstock certamente non erano state portate con così tanto orgoglio. Chiede al pubblico di cantare con lei, non succede nulla. La stragrande maggioranza delle 85mila persone non sa chi sia Joan Baez, non immagina che quella donna vestita di viola e un po’ ‘matusa’ sia l’icona degli anni d’oro del folk politico agli inizi degli anni Sessanta e che ai suoi concerti migliaia di persone si commuovessero e cantassero in coro. Lei cambia la scaletta e invece di “We shall overcome” intona “We are the world”. Completamente fuori posto. Il pubblico tace, non si sa se più imbarazzato o più annoiato. Invece di cantare tre canzoni Joan Baez ne canta due, poi arrivano gli Hooters – che in quel momento sono in classifica con quello che sarà il loro album più famoso – ed ecco che il pubblico esplode, festeggia, balla e canta. Se qualcuno organizzasse oggi uno spettacolo simile, non solo Joan Baez ma anche i nove decimi degli artisti che allora resero indimenticabile quel concerto suonerebbero nel silenzio annoiato di una generazione che considera persino gli anni Ottanta come preistoria. Non so più chi l’abbia detto, ma è proprio vero: la gente non applaude una canzone o un artista, ma festeggia il fatto di riconoscere la canzone e sentirsi quindi parte del momento. Un soffio, e quel momento è andato via.

Oggi gli artisti durano un paio d’anni, poi il loro pubblico si avvicina all’età adulta e ci sono già i ragazzini nuovi.

Joan Baez viene premiata dalla Fondazione Kennedy nel 2020, l’anno della pandemia. Invece della grande sala usuale, la festa si tiene nel foyer, in tono minore. A cantare le sue canzoni ci sono Emmylou Harris e altre cantanti straordinarie con fluenti capelli bianchi e almeno 70 primavere alle spalle. E anche se la Fondazione si impegna per mantenere viva la tradizione, l’America, come il mondo intero, si avvia a essere un deserto culturale, nel quale ciò che è stato importante solo pochi anni fa è sepolto per sempre.   Di Paolo Fusi

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