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Nelle sale “Kind of Kindness” di Yorgos Lanthimos

Proiettato in anteprima mondiale alla 77esima edizione del Festival di Cannes, il film “Kind of Kindness” di Yorgos Lanthimos si divide in tre episodi indipendenti

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Nelle sale “Kind of Kindness” di Yorgos Lanthimos

Proiettato in anteprima mondiale alla 77esima edizione del Festival di Cannes, il film “Kind of Kindness” di Yorgos Lanthimos si divide in tre episodi indipendenti

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Nelle sale “Kind of Kindness” di Yorgos Lanthimos

Proiettato in anteprima mondiale alla 77esima edizione del Festival di Cannes, il film “Kind of Kindness” di Yorgos Lanthimos si divide in tre episodi indipendenti

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Proiettato in anteprima mondiale alla 77esima edizione del Festival di Cannes, il film “Kind of Kindness” di Yorgos Lanthimos si divide in tre episodi indipendenti

Per scrivere di questo film bisogna partire da lontano. Dalla meravigliosa locandina – con i volti che compongono un mosaico di maschere – che rievoca la tradizione del teatro greco come il regista ateniese Yorgos Lanthimos. Passando per il colorato e seducente font del titolo del suo ultimo film “Kinds of Kindness” e il divertente ma fuorviante trailer con cui fu presentato lo scorso marzo. Fino alla precisa composizione di luci del direttore della fotografia Robbie Ryan. Sì, perché andando sempre più a fondo in questo lungometraggio, dietro la forma è difficile scorgere qualcosa. Forse volutamente. Una carrellata di molte promesse.

Sembra il destino di alcuni grandi registi arrivare a un punto in cui il proprio girato diventa un guardarsi allo specchio per puro autocompiacimento. Anche se nessuno mette in discussione l’enorme capacità estetica di Lanthimos e la sua maestria nel guidare impeccabilmente gli attori che formano questo cast stellare (fenomenali nell’interpretare personaggi differenti in ciascuno dei segmenti di cui è composto). Proiettato in anteprima mondiale alla 77esima edizione del Festival di Cannes, il film si divide infatti in tre episodi indipendenti, ma legati tra loro da una strana e cinica inquietudine. Una forma di nichilismo. In questo senso potrebbe ricordare – pur con dei distinguo – la pluripremiata serie tv “Black Mirror”. Solo che qui la distopia sembra essere più filosofica che tecnologica.

Il primo mini-film si intitola “The Death of R. M. F.”. Parla di Robert (con l’impeccabile interpretazione di Jesse Plemons, che a Cannes ha vinto il premio per miglior attore), un impiegato aziendale che non sa né scegliere né vivere senza consigli né imposizioni dall’alto. Tenterà di allontanarsi dal suo oppressivo boss Raymond (impersonato da Willem Dafoe) e cercherà di prendere in mano goffamente il proprio destino. La seconda ‘puntata’ è la più interessante: si intitola “R. M. F. is Flying” e parla di un poliziotto (lo stesso Jesse Plemons) profondamente turbato perché la moglie Liz (interpretata da Emma Stone), sopravvissuta a un grave naufragio in mare, sembra non essere più lei ma un’altra donna. Il terzo segmento è invece “R. M. F. Eats a Sandwich”. È la storia quasi on the road di Emily (Emma Stone) che – insieme al collega Andrew (Jesse Plemons) – frequenta una setta di puristi non ben specificata. Tra sgommate nella sua auto sportiva, indossando il suo abito marrone, è alla forsennata ricerca di una persona che con le sue abilità ultraterrene (Margaret Qualley) riesca a resuscitare i morti. In tutto ciò R. M. F. (impersonato da Yorgos Stefanakos) è il nucleo silenzioso che collega le tre storie, insieme alle tematiche di sangue, cibo, sesso e morte. Vicende divise tra loro da intermezzi musicali o balli, come nel teatro greco. E, come da tradizione ellenica, le musiche originali del film – suonate sui tasti alti e gravi del pianoforte con cori quasi gregoriani – partecipano alla storia come fossero voci di attori.

In Italia la pellicola è stata vietata ai minori di 14 anni per i contenuti violenti, inquietanti sessuali e di linguaggio. Eppure con tutte queste ‘provocazioni’ visive e intellettuali, salvo qualche istante nelle quasi tre ore di pellicola, la catarsi non arriva allo spettatore come forse il regista avrebbe voluto.

di Edoardo Iacolucci

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