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“Past Lives”

Past Lives, l’amore pensato di vite passate

“Past Lives” è ora nelle sale italiane ed è candidato a due premi Oscar, per il miglior film e la migliore sceneggiatura originale
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Past Lives, l’amore pensato di vite passate

“Past Lives” è ora nelle sale italiane ed è candidato a due premi Oscar, per il miglior film e la migliore sceneggiatura originale
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Past Lives, l’amore pensato di vite passate

“Past Lives” è ora nelle sale italiane ed è candidato a due premi Oscar, per il miglior film e la migliore sceneggiatura originale
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“Past Lives” è ora nelle sale italiane ed è candidato a due premi Oscar, per il miglior film e la migliore sceneggiatura originale

“Past Lives” è il film d’esordio alla regia di Celine Song. Proiettato per la prima volta nel 2023 al Sundance Festival (il più importante festival del cinema indipendente) e passato per la Berlinale, è ora nelle sale italiane ed è candidato a due premi Oscar, per il miglior film e la migliore sceneggiatura originale. Largamente autobiografico, “Past Lives” è una storia che in poco più di un’ora e mezza riesce a far viaggiare nel tempo, attraverso ventiquattro anni. E fa sentire per la prima volta davvero adulto chi, come la regista coreano-canadese, è nato a cavallo fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio di quelli Novanta.

Storia di chi fugge e di chi resta. Di come poi scorre la vita. Seul, 2000. Na Young (Greta Lee) e Hae Sung (Teo Yoo) hanno dodici anni. Vanno a scuola insieme nella stessa classe e sono legati da un amore non corrotto, ancora inespresso. La mamma artista e il papà regista di Na Young vogliono però allargare i loro orizzonti e le possibilità di carriera: decidono di emigrare in Canada. Na Young è al bivio della sua vita. Hae la guarda, lei sale le scale. Na Young cambierà il suo nome originale in uno occidentale: Nora Moon. Dodici anni dopo Nora è a New York, vive sola in un monolocale e fa la scrittrice. Non sogna più il Nobel, come da bambina, ma il Pulitzer. Lo dice scherzando a Na Young, dall’altra parte dell’oceano. I due si sono ritrovati su Facebook per sorte, per destino, per in-yun (una parola coreana quasi intraducibile che esprime il fato, per quanto riguarda propriamente le relazioni personali). Il legame fra i due ragazzi torna come se gli anni non fossero passati. Il racconto della quotidianità, le chiamate su Skype, Leonard Cohen che canta «Hey, that’s no way to say goodbye». Ma senza potersi incontrare è più dolore che gioia, per cui meglio troncare. Ancora un bivio. Ancora un sofferto saluto.

Trascorrono altri dodici anni. Entrambi hanno le loro vite, carriere e relazioni. Ma adesso Hae è a New York ed è qui per Nora. Una New York finalmente reale, fra grattacieli fumanti, tag sui mari e buste nere della spazzatura di notte lungo i bordi dei marciapiedi. Così come veritieri sono le case, i dialoghi, le dinamiche sentimentali e di lavoro. I grandi paesaggi metropolitani sono filmati come dipinti impressionisti.

Accompagnato dalle melodie evanescenti e sognanti di Christopher Bear e Daniel Rossen dei Grizzly Bear, quello di Song è un film delicato che tiene insieme le due anime del Pacifico (l’americana e l’asiatica) e ricorda più o meno direttamente le opere di Kaufman e Kar-wai. Con scelte eleganti di regia e montaggio, è esteticamente accurato anche nel riprendere tecnologia e social network: sempre un grande azzardo, ma qui la regista ne fa un uso sapiente e romantico. Dove anche il ringtone di Skype è evocativo quanto una piccola colonna sonora.

di Edoardo Iacolucci 

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