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Pergola racconta “Stream!”: “Ho provato a mettere al centro l’arte”

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Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Pergola circa il suo album “Stream!” in uscita oggi su tutte le piattaforme digitali

Pergola racconta “Stream!”: “Ho provato a mettere al centro l’arte”

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Pergola circa il suo album “Stream!” in uscita oggi su tutte le piattaforme digitali

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Pergola racconta “Stream!”: “Ho provato a mettere al centro l’arte”

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Pergola circa il suo album “Stream!” in uscita oggi su tutte le piattaforme digitali

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È disponibile in formato fisico e digitale “Streram!“, il nuovo album del cantautore e compositore Pergola. Anticipato dal singolo “Dove il sogno va”, l’album è stato registrato negli iconici Real World Studios, fondati da Peter Gabriel, e rappresenta un progetto che fonde sperimentazione e classicismo con grande equilibrio.

L’album è un viaggio sonoro che attraversa la world music, l’elettronica, il rock e il pop. I testi raccontano il senso dell’isolamento, il bisogno di evasione e i conflitti interiori, offrendo un ritratto sincero e universale della figura del sognatore.

Un lavoro ambizioso, arricchito dalla collaborazione con grandi nomi della scena internazionale come Simon Phillips, Lenny Castro, Chris Hughes, Tony Franklin e Ted Jensen, e che rivendica con forza il valore dell’album come forma d’arte. Lo stesso Pergola ce lo racconta in questa chiacchierata fatta qualche giorno fa

La scelta di fare un album oggi sembra un gesto quasi controcorrente. In un’epoca dominata dai singoli, cosa ti ha spinto verso il formato del disco?

È una scelta assolutamente poco convenzionale, poco comoda, se vogliamo. Oggi fare un disco ha poco senso sotto certi aspetti, almeno da un punto di vista pratico: ormai si usa far uscire singoli, uno dopo l’altro. Però io credo che sia importante farlo, perché amo gli album. Amo proprio l’idea del disco, quella di dare continuità a un percorso, di creare un filo tra i brani, un’atmosfera, una sonorità coerente. Un’identità sonora, insomma. Oggi l’album è trattato quasi come il piazzamento di un prodotto commerciale, più che un progetto artistico. Con questo disco ho cercato di fare qualcosa di diverso: mettere al centro l’arte, la musica. Cercare di farla al meglio delle mie possibilità. Un lavoro dove c’è un percorso, un filo narrativo, una visione. Io, se potessi, farei solo album nella mia carriera. Credo molto nel concetto stesso di disco, anche nel formato fisico. C’è un valore lì dentro, c’è una coerenza che mi affascina.

In un certo senso, è un disco che va controcorrente?

Sì. L’ho detto anche ai collaboratori: questo è davvero il disco “da ultimo dei Mohicani”. È come se cercassi di difendere un mio pezzetto di terra, di tenerlo al sicuro, lontano dalle contaminazioni esterne — soprattutto da quelle dettate dal mercato o dalle logiche commerciali. È un disco che pensa a se stesso, ai suoi riferimenti, ai suoi miti. Un lavoro che cerca di preservarsi in una specie di bolla di vetro, con una propria identità, senza lasciarsi troppo influenzare da ciò che succede fuori.

Però il pubblico e i media restano comunque importanti. Non prendiamoci in giro: è fondamentale avere un riscontro, arrivare alle persone, essere presenti. Però credo che, anche prima di tutto questo, venga la qualità. L’urgenza espressiva. Noi stiamo cercando di fare arte — o almeno ci proviamo — e vogliamo farlo al meglio delle nostre possibilità.

“Stream!” è un disco che sembra affiorare da lontano. Quanto tempo è rimasto a “ronzare” nella tua testa prima di nascere davvero?

Questo disco ronzava da anni. La voglia di fare un album così, con questo tipo di musica, ce l’avevo dentro da tempo — non saprei neanche quantificare con precisione quanto. È sempre stato il disco che volevo fare. Ti confesso che il passaggio dal mio percorso elettronico a questo è stato tutt’altro che semplice: artisticamente vengo da lì, e lasciare quella strada per intraprenderne una nuova ha significato azzerare tutto. Resettare. Ricominciare da capo.
Non ero nemmeno certo di esserne capace. Ma era una sfida prima di tutto con me stesso. Dovevo rimettermi in gioco, riabituarmi a un modo completamente diverso di fare musica, di scriverla, di pensarla. E però, come dicevi tu, c’erano queste cose che ronzavano dentro. C’erano, eccome.

È un disco anche molto intimo, che parla di isolamento, di solitudine…

È lo specchio di un periodo molto particolare. È un disco che riflette una fase di forte isolamento, un momento in cui ho sentito l’urgenza di dedicarmi completamente alla composizione e all’introspezione. Per buona parte della produzione — che è durata quasi quattro anni — ho lavorato in solitaria. Scrivevo testi, componevo musica, sperimentavo. Ci sono state idee che sono poi finite nel disco, altre che non avevano senso. Ma è stato un tempo necessario. La prima vera pietra di questo progetto l’ho messa ai Real World Studios di Peter Gabriel nel 2021. Da lì è cominciato tutto davvero. Quello è stato forse il passaggio più bello. Dopo quella fase iniziale in solitaria, ho incontrato i miei collaboratori più stretti, le persone che mi hanno permesso di portare a termine questo disco. Mi hanno messo nelle condizioni ideali — artistiche, umane, emotive — per completarlo nel modo migliore.

A loro devo davvero moltissimo. Perché senza di loro questo progetto non sarebbe mai arrivato fino in fondo. È stato emozionante partire da solo e arrivare alla moltitudine. Ed è proprio questo, forse, il cuore del progetto: la musica è un’arte collettiva. È l’arte dell’incontro.

E non è scontato riuscire davvero ad affidarsi agli altri, specialmente con qualcosa di così personale.

No, per niente. Non è affatto scontato. Quando affidi a qualcun altro una parte del tuo vissuto, attraverso una canzone, non sai mai se riuscirai davvero a farlo nel profondo. Ma in questo caso sì, è successo.

Con Marco Ruggiero, il mio sound engineer, ci dicevamo spesso: “Comunque vada, non possiamo rimproverarci nulla, perché è stato bello farlo.” Ci siamo incontrati, siamo stati bene, sono nate delle vere amicizie. E questo non è affatto banale nel mondo della musica, dove i rapporti spesso restano solo professionali.

Io sono figlio unico, e forse anche per questo vivere questa esperienza di condivisione, di amicizia autentica, per me è stato ancora più significativo.

Parliamo del Real World Studios, un luogo leggendario. Com’è nata l’esperienza lì?

In realtà non sono partito con l’intenzione di fare un album. Questo è importante dirlo: sono andato ai Real World Studios con il desiderio di fare musica, di sperimentare, e soprattutto di uscire da quello che avevo fatto fino a quel momento. Volevo semplicemente fare qualcosa di completamente diverso, imparare. Il Real World non è solo uno studio di registrazione — ce ne sono migliaia di ottimi al mondo, tecnicamente parlando. Ma lì è l’ambiente che fa la differenza. È un posto dove sei quasi costretto a mettere da parte l’ego. Anche se sei tu il produttore, l’artista, il “capo” del progetto, lì capisci che le cose si fanno insieme.

È un ambiente in cui le connessioni sono inevitabili. Le sale sono aperte, condivise. Se registri nella Big Room, magari accanto a te c’è un artista di un altro paese che sta lavorando al suo progetto. E poi si mangia tutti insieme: a pranzo, a cena… È costruito per generare scambio. E questo ti insegna tantissimo.

Durante quella prima esperienza, ad esempio, conobbi un ragazzo che poi anni dopo ha suonato nel disco. Quelle sinergie nate lì sono diventate legami veri, durati nel tempo. Abbiamo messo le prime pietre. Poi è successo qualcosa di importante: al Real World conobbi Chris Hughes, lo storico produttore di “Songs from the Big Chair” dei Tears for Fears.

Lui stava lavorando lì, ascoltò alcune mie idee strumentali e mi incoraggiò a svilupparne una in particolare — quella che poi è diventata “Dove il sogno va”, la seconda traccia dell’album. Ci lavorammo insieme in quei giorni e la completammo. Ed è scattata una scintilla. Mi sono detto: “Ok, voglio fare questo. O almeno, voglio provarci.”

E non sei tornato a casa a mani vuote…

No, anzi. Da quella sessione portarono a casa due tracce fondamentali: “Dove il sogno va” e “A Presto”, la chiusura pianistica del disco. Quelle due canzoni sono state le fondamenta. Tornai con una voglia pazza di continuare a sperimentare, di alzare ancora di più l’asticella. Avevo 19 anni quando sono andato lì. Oggi ne ho 23. È passato del tempo, e mi rendo conto di quanto quell’esperienza mi abbia cambiato.

Visto il tuo percorso, sei la prova vivente che non è vero che tutti i DJ non capiscano di musica. Come ti sei avvicinato a quel mondo e che cosa ti ha lasciato dentro?

Io ho iniziato facendo produzioni elettroniche — da lì, quasi naturalmente, mi sono ritrovato a fare il DJ. È stato bellissimo, divertente, anche un po’ folle. Ti dà un piccolo “delirio di onnipotenza”, come dice Sorrentino, hai il potere di far fallire una festa. Che è pazzesco. Ma la nightlife non era il mio mondo. Proprio no. Io sono la persona meno indicata: non faceva per me, né sul piano personale né su quello artistico. A un certo punto ho capito che non ero felice. Volevo fare altro. Però è un percorso che non rinnego: anzi, lo ringrazio. Mi ha insegnato tanto, anche sul piano discografico. È una fetta della mia storia che custodisco con orgoglio, anche se oggi faccio tutt’altro.

E oggi le chitarre hanno un ruolo centrale nella tua musica…

Assolutamente. Per me la chitarra è necessaria. Cioè, è uno strumento imprescindibile. La davo quasi per scontata: deve esserci. È uno strumento perfetto, perché è sia solistico che ritmico.

Tutte le chitarre ritmiche del disco le ho suonate io. I soli invece li hanno firmati alcuni musicisti straordinari che ho avuto la fortuna di coinvolgere. In Terra di Utopia, ad esempio, c’è Toby Miles, un ragazzo che ho conosciuto proprio al Real World. Ha il mio stesso tempo, è tostissimo. In L’attimo, invece, c’è Chicco Gussoni — il chitarrista di Baglioni — che firma un assolo splendido. E io adoro quando uno strumento si prende la scena, anche solo per qualche istante. Sono ossessionato dal concetto ritmico della chitarra. Amo quella scena West Coast, i Toto, Steve Lukather, Michael Landau, Dean Parks. Li studio tantissimo. Come session men, loro hanno dato un valore inestimabile alle produzioni, proprio grazie alla loro ritmica.

C’è una frase che mi piace molto: “Shadow the melody”, segui la melodia come un’ombra. È esattamente quello che fa una buona chitarra ritmica. Si integra, accompagna, dà corpo al pezzo. È una cosa che un piano o un synth, per quanto splendidi, non possono fare allo stesso modo.

La chitarra ha anche un elemento percussivo, è uno strumento complesso ma anche diretto. È armonia e ritmo insieme. Per me è proprio uno strumento totale. Guarda, potremmo parlare di chitarre per giorni interi. C’ho una passione smodata — si capisce, vero?

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