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Sanremo 1979

Perle sanremesi e semidimenticate

Rosso, Carella e Fanigliulo: i tre artisti, oggi di culto, e quel Festival del 1979. Tre artisti, tre destini diversi e in comune l’etichetta di outsider

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Rosso, Carella e Fanigliulo: i tre artisti, oggi di culto, e quel Festival del 1979. Tre artisti, tre destini diversi e in comune l’etichetta di outsider

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Rosso, Carella e Fanigliulo: i tre artisti, oggi di culto, e quel Festival del 1979. Tre artisti, tre destini diversi e in comune l’etichetta di outsider

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Rosso, Carella e Fanigliulo: i tre artisti, oggi di culto, e quel Festival del 1979. Tre artisti, tre destini diversi e in comune l’etichetta di outsider

Rosso, Carella, Fanigliulo. No, non è l’inizio di una formazione calcistica ma sono i nomi di tre cantautori italiani. Tre artisti sconosciuti ai più, ma da anni divenuti di culto, adorati da stuoli di appassionati musicofili, cultori dell’artigianato musicale più autentico e di una certa autorialità di alto livello. Può succedere, in Italia succede spesso. Il sistema affossa, poi il pubblico piano piano ripesca il tesoro sepolto. È vero, il nostro establishment musicale ha un apparato digerente particolare, spesso scarta i cibi più nutrienti a favore di junk food contraffatto, lasciandosi così sfuggire gemme musicali preziose.

Rosso, Carella, Fanigliulo. Tre artisti, tre destini diversi, in comune l’etichetta di outsider, la bravura e anche la partecipazione al Festival di Sanremo del 1979. Dei tre, Stefano Rosso è quello che ha avuto una carriera a tutto tondo, un grandissimo successo nel 1977 con la canzone “Una storia disonesta”, una scrittura fatta di ingredienti semplici e diretti: la chitarra acustica sempre in evidenza e testi che sono dipinti dolci e amari della realtà di quartiere. Una Roma popolare che ingloba la poesia delle voci del mercato col dramma dell’eroina, la storia dell’uccisione di Giorgiana Masi (la canzone è “Bologna ’77”), la dolceamara narrazione intimista di “Letto 26”. Poi l’approdo al Festival di Sanremo, era il 1979. La canzone si intitolava – udite udite – “L’Italiano”, quattro anni prima dell’inno nazionale scritto e cantato da Toto Cutugno. Anche quella di Stefano Rosso, al pari del Toto nazionale, è una ‘proud song’ ma con ingredienti più salaci, ironici e in parte meno digeribili. Ma non è un successo. Tempo prima, la casa discografica gli ha tolto il pass d’ingresso ai suoi uffici. L’ultima parte del suo percorso artistico Stefano la immola alla sua chitarra. È lui che, più di altri, importa e divulga in Italia la tecnica del fingerpicking di cui è maestro assoluto e che riversa in splendidi live immortalati in alcune produzioni discografiche. Poi la morte a soli 59 anni e il lascito di altissimo valore di un songwriting poetico e popolare.

Già, la morte. Spesso arriva come un fulmine. Franco Fanigliulo ha abbandonato questo mondo terreno a soli 45 anni. Ha però avuto il tempo di lasciare indelebile traccia della sua straordinaria bravura artistica. Come gli artisti veri, per farlo gli è stata sufficiente una sola partecipazione al Festival di Sanremo (anche lui nel 1979) e una performance sul palco dell’Ariston che meravigliò ed esaltò pubblico e critica. La canzone si intitolava “A me mi piace vivere alla grande”. Un pezzo in pieno stile commedia dell’arte in cui sgrammaticatura, nonsense, voce deformata e soprattutto una gestualità molto teatrale e istrionica aprono a un nuovo modo di ‘fare canzone’, un po’ sulla linea già tracciata da Herbert Pagani. Un artista che ci lascia pieni di “se” perché, piacendogli troppo «vivere alla grande» e avendo poco cura dei meccanismi canonici del mondo della discografia, fa poco, predica vino e vita in campagna, distacco e poesia. Una manciata di album di altissima qualità (ha collaborato con Zucchero e Vasco Rossi, ha fatto parte dell’etichetta di Lucio Battisti) che lo fanno diventare il «degno erede di Gaber».

Sempre Sanremo, sempre il 1979. Per il bravissimo Enzo Carella (oggi oggetto di grande riscoperta), il Festival dei fiori è la consacrazione. La sua canzone si intitola “Barbara” e gli frutterà il secondo posto. Già dalla sua prima apparizione in tv (la trasmissione era la brillante ma dimenticata “10 Hertz” condotta da Gianni Morandi) si distingue per quel modo di porsi elegante, con un volto un po’ sbarazzino e un po’ da ladro gentiluomo, condisce il suo brillante cantato lasciandosi andare a piccoli ed eleganti inchini. Su tutto, la qualità della sua proposta musicale. Canzoni leggere, rarefatte, un po’ funky con qualche venatura prog e i testi di Pasquale Panella che si fondono in un mix alchemico e ipnotico. Canzoni come “Malamore”, “Mare sopra”, “Sfinge” sono gioielli raffinati, spiazzanti, a volte lisergici. Canzoni che stregarono Lucio Battisti e che finalmente il grande pubblico comincia a scoprire e assaporare.

Insomma, continuiamo a scavare. Sotto la spessa crosta della banalità canzonettara italiana esistono ancora tanti tesori nascosti.

Di McGraffio

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