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Pupi Avati, dal “vestale dell’al di là” al ricordo di Mario Monicelli

Una vita non basta per raccontare Pupi Avati: dal suo ultimo “L’orto americano” al ritorno in bianco e nero fino al rapporto, prezioso con l’al di là

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Pupi Avati, dal “vestale dell’al di là” al ricordo di Mario Monicelli

Una vita non basta per raccontare Pupi Avati: dal suo ultimo “L’orto americano” al ritorno in bianco e nero fino al rapporto, prezioso con l’al di là

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Pupi Avati, dal “vestale dell’al di là” al ricordo di Mario Monicelli

Una vita non basta per raccontare Pupi Avati: dal suo ultimo “L’orto americano” al ritorno in bianco e nero fino al rapporto, prezioso con l’al di là

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Una vita non basta per raccontare Pupi Avati: dal suo ultimo “L’orto americano” al ritorno in bianco e nero fino al rapporto, prezioso con l’al di là

Classe 1938 ma un entusiasmo trascinante da ragazzino nel suo lavoro di regista, tra corsi e ricorsi storici tipici dell’età matura, di cui lui si fa ambasciatore fiero e maestoso. È Pupi Avati, reduce dal suo ultimo film “L’orto Americano” che ha chiuso in bellezza un’edizione già di per sé da record della Mostra del Cinema di Venezia.

Alla sua decima partecipazione, Pupi Avati è ritornato al Lido con una pellicola applaudita dal pubblico del Festival del Cinema per poi approdare domenica scorsa, 22 settembre, al Lucca Film Festival che ha omaggiato il maestro con la proiezione di uno dei suoi film più conosciuti e celebrati “La casa dalle finestre che ridono”.

Tra passato e presente, dunque, Pupi Avati ritorna con pellicole che celebrano la sua carriera e il grande ritorno del bianco e nero: “L’orto americano” è un film della maturità perché somma una serie di mondi che ho conosciuto nella mia vita che vanno dall’Italia dei re e dittatori degli anni ‘30 e ’40 all’Italia della guerra e del dopoguerra. Proprio quest’ultimo periodo storico, l’ho scelto in modo inusuale per il genere thriller-gotico (fatta eccezione per “Il terzo uomo” di Orson Welles). È un periodo che ho vissuto e di cui ho ricordi nitidi, anche se ero poco più di un bambino, ma ho adorato ricostruirlo e restituirlo al cinema scegliendo il bianco e nero. Mi è sembrato di aver ricominciato a fare il cinema da capo: averlo utilizzato oggi è stata un’esperienza così assoluta, così totale, che sarà difficile per me tornare al colore”, spiega Avati. Una scelta, anche stavolta, non casuale: “Molti di noi quando facciamo zapping veniamo coinvolti e bloccati quando vediamo una pellicola in bianco e nero. Perché è come se ci garantisse una sorta di qualità che ci garantivano i nostri padri o di chi ci ha preceduto che facevano cose molto più interessanti di quelle che si fanno oggi”.

Un film che si è rivelato anche l’occasione per rivelare un segreto: un rapporto con l’al di là più che tangibile. “Ho rivelato per la prima volta, con un po’ di civetteria che non nascondo, un mio segreto: ho un rapporto con speciale i miei defunti, con le persone a me care, con i miei parenti o amici che non ci sono più. Incluso nel pacchetto vecchiaia, c’è il fatto che da un certo punto sei costretto a cancellare dall’agenda molti numeri di telefono. Sono più di 250 le persone che ho segnato sul mio computer e tutte le sere leggo i loro nomi ad alta voce come una sorta di preghiera, per tenerli un attimino ancora in me. Insomma, sono una vestale di questo al di là che spero di raggiungere il più tardi possibile”.

E del giovanissimo protagonista, Filippo Scotti? “Io credo che gli attori non lo diventino ma nascano attori. Non sono mestieri ma sono vocazioni come il poeta o il pittore o il musicista. Filippo Scotti lo ricordavo nella sua interpretazione ne “È stata la mano di Dio” e si è rivelato un attore di una sensibilità straordinaria. Pur essendo eterosessuale – scherza giocosamente il regista – posso dire che sì, mi sono innamorato del suo talento”.

Dal futuro al passato, Pupi Avati saltella tra i ricordi e le esperienze e li trasforma in magia della settima arte. Gli chiediamo quale sia il film a cui si sente maggiormente legato o grato: “Storia di ragazzi e ragazze” è stato il mio momento di grazia. Venivo da un infarto molto preoccupante ed erano tutti convinti che non ce l’avrei fatta, compreso Mario Monicelli che era con me nella stessa suite al Gemelli dopo un incidente stradale che gli aveva causato 17 fratture. Di notte lo andavo a trovare e ci consolavamo a vicenda perché entrambi avevamo voglia di fare ancora tanto nel cinema.

Appena superata la convalescenza, la prima cosa che ho pensato è stata: “Ora voglio stare solo con le persone che mi vogliono bene. Ho fatto così un elenco di 28 attori e ho iniziato a lavorare al film della mia vita, quello di cui vado più orgoglioso perché ha rappresentato la mia rinascita. E ho potuto raccontare il fascismo e la sua nascita senza quasi mai nominare quella parola: c’ho messo dentro anche l’ironia, ma sempre in modo affidabile”, conclude Avati.

di Raffaela Mercurio

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