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Purple Rain compie 40 anni

“Purple Rain” di Prince compie quarant’anni. Una canzone colosso che penetra subito nell’animo, ti ipnotizza, proiettandoti in una dimensione nebbiosa e apocalittica

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Purple Rain compie 40 anni

“Purple Rain” di Prince compie quarant’anni. Una canzone colosso che penetra subito nell’animo, ti ipnotizza, proiettandoti in una dimensione nebbiosa e apocalittica

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Purple Rain compie 40 anni

“Purple Rain” di Prince compie quarant’anni. Una canzone colosso che penetra subito nell’animo, ti ipnotizza, proiettandoti in una dimensione nebbiosa e apocalittica

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“Purple Rain” di Prince compie quarant’anni. Una canzone colosso che penetra subito nell’animo, ti ipnotizza, proiettandoti in una dimensione nebbiosa e apocalittica

Otto minuti e quaranta secondi. Questa la durata del brano. Era dai tempi dei “Hey Jude” dei Beatles e di “Music” di John Miles che una ‘canzone-fiume’ non irrompeva nell’orecchio e nell’anima del mondo rifrescandoli di nuova e vitale linfa pop.  

Un brano musicale in grado di accogliere nel suo grembo una miscela micidiale di rocksoulbluesfolk e persino gospel. Una chitarra che pennella quattro morbidi e seducenti accordi speziati dalla presenza di un pedale chorus, una voce black resa evocativa da un corposo reverbero e quell’attacco ormai mitico: «I never meant to cause you any sorrow… I never meant to cause you any pain…».

“Purple Rain” di Prince compie quarant’anni. Una canzone colosso che penetra subito nell’animo, ti ipnotizza, proiettandoti in una dimensione nebbiosa e apocalittica. Un pezzo che ha consacrato il talento pazzesco di Prince Roger Nelson alias Prince, giovane imbevuto di Jimi Hendrix, di blues e dei classici di Stax e Motown, polistrumentista virtuoso, come il miglior Frank Zappa capace di fondere stili e zigzagare con ritmi e sonorità diverse. 

Eppure “Purple Rain” non doveva essere là. Nel senso che nelle intenzioni originarie dell’autore, il brano doveva essere qualcosa di diverso: un semplice country (Prince era un fan di Kris Kristofferson), un brano acustico un po’ ritmato con una costante cadenza in quattro. Una cosa che l’artista di Minneapolis aveva offerto alla tanto amata cantante Stevie Nick dei Fleetwood Mac, che lo aveva però rifiutato. Non un rifiuto capriccioso il suo, ma al contrario pieno di riguardo, anzi di turbamento. Quel brano aveva qualcosa di particolare, profondo, che il rustico mood ‘di campagna’ non poteva completamente catturare e restituire.

Quando poi Prince lo presentò alla sua band (i Revolution), non riuscì a trattenere la frase: «Stiamo per fare la Storia». C’era energia nascosta, c’era magia in quella lunga narrazione in musica infarcita di sensualità, grazie alla scarna e seducente ritmica iniziale che non è opera di Prince ma di una donna di appena 19 anni: la chitarrista Wendy Melvoin. 

Tutto accade in occasione di un concerto di beneficenza al First Avenue di Minneapolis, il 3 agosto 1983. Otto minuti e quaranta, l’introduzione, il cantato, la batteria reverberata, i cori semi-gospel con l’assolo di Prince che è pura lava di vulcano e, nel finale, un falsetto lancinante, quasi l’acume erotico di un rito eleusino. Pubblico che rimane a bocca aperta e brano che viene registrato quindi live (sovrainciso un anno dopo solo della parte degli archi più qualche synth). 1984: successo mondiale. Consacrazione di Prince nell’olimpo delle rockstar. Tredici milioni (c’è chi dice 25) di copie vendute. 

Il testo della canzone suscita domande, perplessità e anche qualche ironia: troppo criptico e distopico, per qualcuno. Prince era stato ispirato da un verso di “Ventura Highway” degli America e la sua esegesi è chiara: «Quando il cielo si tinge di rosso, la fusione di blu e rosso diventa viola. La pioggia viola è un simbolo: se il mondo sta finendo, resta vicino alla persona che ami e lascia che la fede ti guidi attraverso la tempesta». Yeah!

di Mcgraffio

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