Quando De André non era ancora Faber
I cinquantacinque anni di “Vol. 1°” il primo album di inediti di Fabrizio De André.
Quando De André non era ancora Faber
I cinquantacinque anni di “Vol. 1°” il primo album di inediti di Fabrizio De André.
Quando De André non era ancora Faber
I cinquantacinque anni di “Vol. 1°” il primo album di inediti di Fabrizio De André.
I cinquantacinque anni di “Vol. 1°” il primo album di inediti di Fabrizio De André.
Cinquantacinque anni fa usciva da Bluebell Records il primo album di inediti di Fabrizio De André, il leggendario “Vol. 1°”. Tecnicamente si tratta del secondo disco, ma “Tutto Fabrizio De André” – pubblicato dalla Karim l’anno precedente, nel 1966 – conteneva brani già in commercio su singoli a 45 giri. E che brani! Si va da “La ballata dell’amore cieco” a “Amore che vieni, amore che vai”, da “La canzone di Marinella” a “La guerra di Piero”. Anche “Vol. 1°” non scherza: si compone di dieci tracce (undici in realtà perché “Caro amore” sarà sostituita, per problemi di copyright, nelle successive ristampe da “La stagione del tuo amore”), tra le quali spiccano “Preghiera in gennaio”, “Si chiamava Gesù”, “Via del Campo”, “Bocca di rosa” e “Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers”. Veri e propri classici del repertorio deandreiano, snocciolati in un unico florilegio. Ma procediamo con ordine.
Il pezzo di apertura è, appunto, “Preghiera in gennaio”: scritta dopo il funerale di Luigi Tenco, la canzone è modellata su una lirica del poeta simbolista francese Francis Jammes. Emerge il tema della morte e dell’aldilà, vero leitmotiv della raccolta, con versi di un’asciuttezza esemplare: «Lascia che sia fiorito / Signore, il suo sentiero / quando a te la sua anima / e al mondo la sua pelle / dovrà riconsegnare».
Dopo “Marcia nuziale”, traduzione di una ballata di Brassens, si passa all’apparentemente semplice (e frutto di «scarso minutaggio», secondo lo stesso De André) “Spiritual”, che gioca con la grande tradizione afroamericana, in cui l’azione redentiva del «Dio del cielo» è invocata «nei campi di granturco». “Si chiamava Gesù” è forse il momento più alto dell’album: trasmessa in quegli anni persino dalla Radio Vaticana, riconosce nel nazareno un uomo di «inumano amore», «venuto da molto lontano / a convertire bestie e gente», e «non si può dire non sia servito a niente».
“La canzone di Barbara” racconta in toni ambigui una fuggevole liaison, mentre “Via del Campo” anticipa un rilevante tratto della poetica di De André: lo sguardo rivolto agli ultimi e alle minoranze, evangelicamente gli umiliati e gli offesi tenuti ai margini della società. Se “La stagione del tuo amore” celebra con estrema dolcezza l’inizio di una relazione tardiva, “Bocca di rosa” – uno dei pezzi più emblematici di tutta l’opera dello chansonnier genovese – cerca di ribaltare gli stereotipi dell’ossequioso conformismo di provincia, innalzando l’«amor profano». “La morte” utilizza ancora una melodia di Brassens per affermare motivi pavesiani: «La morte verrà all’improvviso / avrà le tue labbra e i tuoi occhi / ti coprirà d’un velo bianco / addormentandosi al tuo fianco».
La chiusura è affidata alla tenzone in stile medievaleggiante “Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers”, appartenente al genere satirico della “pastorella” e composta a quattro mani con Paolo Villaggio. Insomma, “Vol. 1°” (che presenta nella copertina della versione stereo un famosissimo primo piano di De André) è un album già abbastanza denso di riferimenti culturali e profondità stilistico-concettuali. Bisognerà attendere soltanto qualche mese perché Faber riceva i giusti onori: nel dicembre del 1967 Mina incide “La canzone di Marinella”. La notorietà, l’addio alla Facoltà di giurisprudenza (per nostra fortuna) e la certezza della professione di cantautore sono dietro l’angolo.
Di Alberto Fraccacreta
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