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Sessant’anni fa il divorzio fatto all’italiana

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L’abolizione dell’articolo 587 del Codice Penale, denominato diritto d’onore, che permetteva ad un uomo di uccidere una donna in caso di tradimento, deve la sua abrogazione al film “Divorzio all’italiana”, di Pietro Germi, uscito il 20 dicembre del 1961.

Sessant’anni fa il divorzio fatto all’italiana

L’abolizione dell’articolo 587 del Codice Penale, denominato diritto d’onore, che permetteva ad un uomo di uccidere una donna in caso di tradimento, deve la sua abrogazione al film “Divorzio all’italiana”, di Pietro Germi, uscito il 20 dicembre del 1961.
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Sessant’anni fa il divorzio fatto all’italiana

L’abolizione dell’articolo 587 del Codice Penale, denominato diritto d’onore, che permetteva ad un uomo di uccidere una donna in caso di tradimento, deve la sua abrogazione al film “Divorzio all’italiana”, di Pietro Germi, uscito il 20 dicembre del 1961.
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Sessant’anni fa, il 20 dicembre 1961, avveniva la prima proiezione in pubblico del film di Pietro Germi “Divorzio all’italiana”, che conquistò diversi e importanti premi: Oscar alla sceneggiatura, Golden Globe a Marcello Mastroianni, premio al regista per la migliore commedia al Festival di Cannes, Nastro d’argento per il miglior soggetto originale e miglior attore protagonista. Da tempo Germi coltivava l’idea di un film sui matrimoni sanguinosi: «Ricordo che lessi di un ingegnere siciliano, che da Roma, dove abitava, era andato a Milano per ammazzare la moglie che lo tradiva. Poi invece ammazzò l’amante della moglie […] per la strada, in pieno centro. […] Anziché ricoverarlo in manicomio per tutta la vita i giudici milanesi l’han condannato ad una pena modestissima […] ed è uscito tra gli applausi della folla». Che “Divorzio all’italiana” nasca da un’idea di Germi, lo conferma lo sceneggiatore Alfredo Giannetti, al quale un giorno il regista dice: «Senti, io vorrei fare un film che è la storia di un tradimento, di un uomo che uccide una donna, la moglie che lo ha tradito, amandola; e che però poi, siccome c’è il delitto d’onore (in un paese del Sud un uomo che uccide una fedifraga è applaudito), lui prende due anni appena, dopo aver ammazzato questa poveretta che aveva avuto il torto di tradirlo. E quando torna in paese tutti lo salutano come un eroe». Negli anni in cui nel nostro Paese i delitti d’onore erano innumerevoli, raccontare la storia di un uomo che ammazzava la moglie perché questa lo tradiva non avrebbe dato particolare significato e forza dirompente al film che Germi aveva in mente di girare. Lo intuirono gli sceneggiatori Ennio De Concini e Alfredo Giannetti che, d’accordo con il regista, maturarono così il proposito di rovesciare nel grottesco l’idea originaria del film, che era di ispirazione drammatica. Non più l’uomo, il barone Ferdinando Cefalù (Mastroianni), che ammazza perché ama ed è tradito dalla consorte, ma uno che ammazza perché non ama più la donna che gli vive accanto e pensa perciò di sopprimerla per poi convolare a nozze con la nuova fiamma di cui si è invaghito, la giovanissima cugina Angela (Stefania Sandrelli). La vicenda grottesca al centro del film “Divorzio all’italiana” in quel lontano dicembre del 1961 fece riflettere sulla condizione della donna ridotta a cosa e umiliata da un falso concetto dell’onore nonché sulla inadeguatezza del diritto di famiglia allora vigente. Costituì un punto di partenza significativo per l’abrogazione, dal nostro codice penale, dell’articolo 587, che prevedeva – unico caso in tutto l’Occidente – una pena infima per l’omicidio «per causa d’onore». di Lorenzo Catania

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