“Songs of Surrender”, gli U2 (a metà) si riprendono la scena
“Songs of Surrender”: 40 canzoni non solo ri-arrangiate, ma praticamente ricostruite da The Edge
“Songs of Surrender”, gli U2 (a metà) si riprendono la scena
“Songs of Surrender”: 40 canzoni non solo ri-arrangiate, ma praticamente ricostruite da The Edge
“Songs of Surrender”, gli U2 (a metà) si riprendono la scena
“Songs of Surrender”: 40 canzoni non solo ri-arrangiate, ma praticamente ricostruite da The Edge
“Songs of Surrender”: 40 canzoni non solo ri-arrangiate, ma praticamente ricostruite da The Edge
C’è un capitolo del libro autobiografico di Bono (“Surrender” – Libri Mondadori) sull’incontro con Johnny Cash. A casa del mito del folk, tra il suo zoo privato e la nostalgia della droga, whiskym confessioni e sigarette. La voce di Cash, cavernosa, consumata da alcool, vecchiaia ed eccessi, è come se oltre 20 anni dopo fosse risorta e confluita nelle corde vocali del leader degli U2 per “Songs of Surrender”: 40 canzoni – quattro cd da dieci pezzi, una set list scelta da ognuno dei componenti della band irlandese – non solo riarrangiate, ma praticamente ricostruite da The Edge, chitarrista, anima musicale ed emotiva degli U2. E’ il discusso ritorno della band irlandese, che tornerà a esibirsi dal vivo a settembre a Las Vegas senza Larry Mullen jr, batterista, fondatore e collante del gruppo.
Può un’idea in apparenza debole – ovvero tirare fuori l’ennesimo greatest hits di una rock band con 45 anni alle spalle nell’era del disco, senza collocazione nella musica liquida – travolgere preconcetti e convinzioni? Può, certo che può, se questa è la qualità artistica del prodotto. Altamente seduttiva, coinvolgente. Ammaliante, anche nei suoi punti oscuri, anche nelle versioni meno convincenti di brani leggendari, che però ci sono e aiutano a restare con i piedi per terra, perché non si tratta di un capolavoro. Ma di un esercizio di stile riuscito.
Certo, la riflessione più immediata è anche la più logica: sarebbe sempre preferibile ascoltare materiale inedito, verificare come resistono gli U2 all’usura del tempo, all’usura dell’ispirazione che quando saluta, non lascia bigliettini d’addio.
In questo senso cavalcano la tendenza a riproporre il passato. L’ha fatto di recente anche Roger Waters, riarrangiando “The Dark Side of the Moon” per il suo cinquantennale eppoi il rock attraversa una fase davvero delicata, la definizione stessa di rockstar, nell’era dei social e dei comportamenti oltre le righe per un clic o un retweet in più, forse deve trovare una nuova dimensione.
Ma almeno c’è sperimentazione, c’è la ricerca di altri suoni, di altri orizzonti. Bono e soci si sono assunti un rischio in realtà enorme, andando per sottrazione, togliendo ritmo, batteria alla loro straordinaria produzione musicale. E dunque, pianoforte, poca chitarra, synth, archi a pioggia e un pizzico di batteria (nel disco di Larry Mullen, il batterista della band).
E poi Bono frega tutti. Perché i quattro dischi sono la celebrazione della sua grandezza. Perché sul tappeto musicale costruito da The Edge entra con un levigato timbro da crooner – un po’ Johnny Cash, un po’ Leonard Cohen – che si è consumato al punto giusto ai tavolini del pub di Dublino e sui palchi di tutto il mondo. Non urla, non può più urlare come ai tempi di Bad o dello Zoo Tv, certo, ma quella voce, per intensità e venature del canto, cattura e lascia vibrazioni. Ci sono segmenti meravigliosi, da preservare come i gioielli preziosi, come la versione bossanova di The Fly, il punto forse più alto ed egotico di Achtung Baby, l’album (1991) della svolta verso il rock elettronico e come Stay, profonda,struggente, quasi come l’originale. Ci sono pezzi, anzi capolavori, “One”, “Pride” che invece convincono poco. Quando si tirano le somme, si può dire: ne è valsa la pena.
Si sono ripresi la scena, gli U2. A modo loro, con un approccio vanesio che resta puro rock ‘n roll, con una scelta che sta facendo discutere i suoi fan, ma anche questa è una delle chiavi per decifrare il successo di 45 anni. Oltre a Songs of Surrender, su Disney+ c’è il docufilm – “A Sort of Homecoming”, come uno dei pezzi migliori di The Unforgettable Fire, capolavoro della band del 1984 – con cui David Letterman racconta la storia di Bono, Edge, Adam, Larry, mettendo assieme l’idea di un concerto (e di un disco) in cui la musica che li ha resi immortali viene decostruita e ricomposta. Ed è ancora nelle librerie l’autobiografia del frontman degli U2, 600 pagine tra adolescenza, il rapporto deteriorato con papà Bob, la mancanza della madre Iris, la genesi, il trionfo e i punti bui con gli U2, l’amata moglie Ali, le battaglie civili e l’onnipresenza di Dio.
di Nicola Sellitti
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