Springsteen e il suo popolo: San Siro è di nuovo suo
Assistere a un concerto di Bruce Springsteen è come entrare nella parte più proibita del tempio. Eravamo a San Siro, ecco com’è andata
Springsteen e il suo popolo: San Siro è di nuovo suo
Assistere a un concerto di Bruce Springsteen è come entrare nella parte più proibita del tempio. Eravamo a San Siro, ecco com’è andata
Springsteen e il suo popolo: San Siro è di nuovo suo
Assistere a un concerto di Bruce Springsteen è come entrare nella parte più proibita del tempio. Eravamo a San Siro, ecco com’è andata
Assistere a un concerto di Bruce Springsteen è come entrare nella parte più proibita del tempio, è come esser ai piedi dell’altare del rock, mentre il Boss celebra la messa in un rito collettivo di migliaia di cuori che si rinnova con nuova forza, un nuovo fuoco, ogni volta. Quasi tre ore di musica, quasi 30 canzoni, in uno show che non lascia fuori nessun messaggio, che si espone solo come il Boss sa fare: senza filtri, senza calcoli, con l’anima in mano, tra un messaggio per il suo Paese e una frecciata a Trump.
La E Street Band al gran completo con anche la sei corde di Little Steven – operato pochi giorni fa per un’appendicite ma stoicamente sul palco a rockeggiare – ha dimostrato una volta di più di essere come il vino buono: forza dirompente e cristallina, nella compattezza e nella bellezza del saper suonare assieme, del capirsi a uno sguardo, dell’aver camminato assieme, fianco a fianco, per decenni. Ogni nota è stata un frammento di storia condivisa, ogni assolo un tassello di memoria viva.
Un San Siro pieno fino all’ultimo posto si è commosso su The River, ha ballato su Born to Run, ha urlato con le vene in gola ogni parola di Badlands, ha trasformato Dancing in the Dark in una liberazione collettiva. Il pubblico non era solo spettatore: era parte integrante del racconto, un enorme coro che ha accompagnato Bruce dall’inizio alla fine, con la stessa energia di quella prima volta, il 21 giugno del 1985, quando Milano lo accolse per la prima volta e non lo lasciò più andare. Si è più volte rischiato di rompere il muro del suono…
E poi, la chiusura. Una canzone che è tutto tranne che una scelta casuale: This Land Is Your Land di Woody Guthrie. Un inno alla terra, alla giustizia, all’uguaglianza, che risuona da decenni ma che oggi, in questo mondo spezzato e frammentato, suona più urgente che mai. Bruce non si nasconde. Non lo ha mai fatto. E anche stavolta, sul finale, ha voluto ricordare a tutti che il rock è anche una voce. E che quella voce può – e deve – dire qualcosa.
La scaletta ha miscelato sapientemente classici intramontabili e brani meno prevedibili – nei giorni in cui è uscito il suo ultimo cofanetto “Traks II”, contenente interi album interi inediti e altre perle – , mantenendo vivo il cuore del rock ma lasciando spazio anche alla riflessione. Un concerto che è stato più di un’esibizione: è stato un atto d’amore, un richiamo alle radici, una promessa mantenuta.
Bruce Springsteen non è solo un artista: è un rituale. E ogni volta che sale su quel palco, ci ricorda che il rock non è solo musica. È fede, è sudore, è vita.
di Federico Arduini
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