Il tecnico-sciamano se l’è inventato lui. Come i colpi di teatro, tipo la fuga nel bagagliaio a Madrid e quella tendenza, assai gradita alla stampa, di produrre titoli in serie. Mou compie 60 anni. Le pose da sex symbol che hanno caratterizzato le prime tappe di una carriera leggendaria – al Porto, al Chelsea ma anche a Milano – hanno lasciato spazio ai capelli bianchi e agli sguardi ironici, furboni.
Ha vinto tutto, tra Inghilterra, Spagna, Italia. Ha saputo gestire ogni tipo di campione. Su tutti, Drogba, Ibra, Cristiano Ronaldo. Ha intercettato la traiettoria del pallone che cambiava. La disintermediazione nei rapporti tra club e stampa, il tecnico-manager ad allenare tutti, calciatori, dirigenti, giornalisti. Ha alimentato, ancora alimenta come nessuno, il sentimento messianico dei tifosi delle sue squadre.
Josè Mourinho, allenatore globale. Allenatore Special. Prima, però, si è imposto da underdog, al Porto, vincendo la Champions League. Poi, su suo conio, in una conferenza stampa a Stamford Bridge, è diventato lo Special One, tra Chelsea (due volte), Inter, Real Madrid.
La terza parte del percorso, dopo la sbornia di trionfi nel prime, invece ha visto qualche caduta. Tre titoli al Manchester United ma senza prendersi la creatura di Sir Alex Ferguson – uno dei suoi modelli -, poi una stagione senza fiamme al Tottenham, sino al ritorno in Italia, alla Roma. Accolto come un gladiatore al Colosseo, occupando quel vuoto mediatico, emotivo, lasciato da Francesco Totti. Ha assicurato di trovarsi in una fase della carriera in cui la felicità di una tifoseria viene prima di uno scudetto, una Champions League. Più padre nobile che condottiero, qualche spigolo levigato.
In realtà Mou finge, recita il suo copione. In questo, non è cambiato. La mentalità è quella vincente, la fame di vincere è sempre quella, forse non lo è il materiale a disposizione e quindi si adegua, si adatta allo scopo, come i marines. Nella sua scatola nera c’è traccia di una lunga collezione di nemici, alcuni (come Claudio Ranieri e Luciano Spalletti) poi diventati amici. Personalità, prossemica senza pari, frasi affilate come lame: l’ultima sul caso Zaniolo, finito sul mercato. Ne ha visti di ben più forti fare le bizze, figurarsi se si scompone.
A Mou è sempre piaciuto piacere. E su questo campo, forse si è scontrato con l’avversario più forte dell’ultimo ventennio, Pep Guardiola, che ha sedotto come lui fuori dal campo ma pure in campo, con il tiki taka, il calcio globale. Ha provato a batterlo, con il suo Real Madrid ha dovuto produrre 100 punti in un campionato, nel 2012, per superare quell’edizione premium del Barça, tra Messi, Xavi, Iniesta, che ne fece 99. Forse è la sua più grande soddisfazione, più della Champions vinta con l’Inter, perché da quel Barcellona ha incassato batoste memorabili. Tipo la manita del 2010, quattro reti solo nel primo tempo e Mou che nell’intervallo inserisce un centrocampista per una punta, per non prenderne di più. Ha cercato di attaccar briga con qualche altro “nemico”, perché è carburante che gli serve per alimentare il percorso, suo e della squadra. Con Antonio Conte, per esempio, ci sono state baruffe, in Premier League. In Italia non ci sono competitor: Pioli e Inzaghi sono tiepidi, Allegri schiva colpi, Spalletti forse è troppo forte, con il suo Napoli, che affronterà domenica.
In ogni caso, tra pregi e difetti, Mou ha fatto la storia. Molti l’hanno considerato sul viale del tramonto. Forse, ha ancora qualche cartuccia da giocarsi.
Di Nicola Sellitti
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