Ai Mondiali di basket, la battaglia del Sudan
Storie che vanno oltre lo sport quelle di Manute Bol e Luol Deng, sul campo per portare all’attenzione i diritti negati del Sudan
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Ai Mondiali di basket, la battaglia del Sudan
Storie che vanno oltre lo sport quelle di Manute Bol e Luol Deng, sul campo per portare all’attenzione i diritti negati del Sudan
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Storie che vanno oltre lo sport quelle di Manute Bol e Luol Deng, sul campo per portare all’attenzione i diritti negati del Sudan
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Storie che vanno oltre lo sport quelle di Manute Bol e Luol Deng, sul campo per portare all’attenzione i diritti negati del Sudan
Ai Mondiali di basket, appena conclusisi nelle Filippine con la vittoria della Germania, una storia ha superato il valore sportivo e ci ha portato dentro un mondo completamente diverso. Per raccontarla bisogna però andare indietro di qualche anno e in un luogo preciso: il Sudan del Sud.
Qui c’è un ragazzo che vive in un villaggio e sopravvive facendo il pastore, si chiama Manute Bol e ha una particolarità: è alto due metri e 31, una caratteristica della sua etnia (i Dinka) ma soprattutto della sua famiglia, dato che il nonno misurava due metri e 39 e la madre più di due metri. Chiaramente con quelle misure finisce a giocare a basket ed entra addirittura nella Nazionale giovanile sudanese. Una casacca che Manute indossa ma che non sente sua, dato che fa parte di quell’area del Paese, il Sud Sudan appunto, che dalla conferenza di Juba del 1947 chiede a gran voce l’indipendenza e il riconoscimento come Stato autonomo.
Durante un torneo internazionale il ragazzo viene notato dagli scout Nba, che lo prendono e portano in America. Quel giovane così alto diviene da subito un’attrazione, gira diverse squadre e approfitta della sua posizione per divenire un attivista per l’indipendenza del Sud Sudan. Addirittura dona, nel corso degli anni, circa 90 milioni di dollari per far costruire strade, ospedali e scuole nei villaggi del ‘suo’ Paese. Nel 2010 muore a 47 anni e senza un soldo, dopo aver dato la vita per la causa della sua gente.
La sua vicenda s’intreccia con quella di Luol Deng, anch’egli sudanese, figlio di una famiglia di profughi fuggita in Egitto. Da piccolo incontra proprio Manute Bol, che aveva aperto diverse scuole di basket nelle aree dove vivevano i rifugiati e che lo convince a dedicarsi a quello sport. Anche Luol finisce a giocare in Nba per i Bulls, i Cavaliers e i Lakers. Quando nel 2011 il Sud Sudan ottiene l’indipendenza decide di creare la Federazione nazionale di basket per promuovere, tramite lo sport, i concetti di emancipazione e libertà. Un sogno che Manute Bol, il suo mentore, aveva accarezzato per una vita ma non era riuscito a realizzare.
A febbraio la Nazionale del Sud Sudan si qualifica ai Mondiali di basket 2023 e dopo la vittoria contro l’Angola è riuscita nell’impresa di staccare il pass per le prossime Olimpiadi. Gran parte dei suoi giocatori vive all’estero, alcuni non avevano mai visto il proprio Paese perché provenienti da famiglie che erano fuggite nell’epoca della repressione degli indipendentisti, molti sono orfani. Il Paese è uno dei più poveri del pianeta, si vive con meno di due euro al giorno e il tasso di mortalità infantile è altissimo.
Quando gli atleti della Nazionale sfileranno a Parigi 2024 non lo faranno soltanto per competere ma per portare all’attenzione del mondo la situazione di questa piccola nazione che, tramite lo sport e il sogno di due ragazzi che giocavano a pallacanestro, per la prima volta smetterà di essere invisibile agli occhi di buona parte del pianeta.
Stefano Faina – Silvio Napolitano
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