Verso City – Inter, vincere non è l’unica cosa che conta
Anche Guardiola nei giorni precedenti alla finalissima del suo City di stasera con l’Inter ha provato a spiegare che chi perde non fallisce
Verso City – Inter, vincere non è l’unica cosa che conta
Anche Guardiola nei giorni precedenti alla finalissima del suo City di stasera con l’Inter ha provato a spiegare che chi perde non fallisce
Verso City – Inter, vincere non è l’unica cosa che conta
Anche Guardiola nei giorni precedenti alla finalissima del suo City di stasera con l’Inter ha provato a spiegare che chi perde non fallisce
Anche Guardiola nei giorni precedenti alla finalissima del suo City di stasera con l’Inter ha provato a spiegare che chi perde non fallisce
Il filo è sottile. Ma esiste. Si gioca per vincere, è il fascino irresistibile della competizione, la benzina emotiva per andare oltre il limite, fisico e mentale. Per infilarsi nei libri di storia. Ma anche Pep Guardiola nei giorni precedenti alla finalissima di Champions di stasera con l’Inter ha provato a spiegare che chi perde non fallisce, non fallisce chi ci prova. Che nello sport non si può sempre vincere, perché è come se fosse annullato il valore degli avversari. Lui ha vinto 34 trofei in panchina, ha perso finali importanti, si ritrova ora una squadra formidabile, costata tantissimo, favorita per la finale ed è “costretto” a vincere, sennò quell’etichetta torna visibile sulle sue spalle. Quella del fallimento, non di un insuccesso.
Il tecnico catalano ha da tempo intrapreso questa battaglia, che è soprattutto culturale, che confuta il principio della vittoria come l’unica cosa che conta. Che conta finire solo sugli almanacchi, non importa come, mentre lo sport, il calcio come il basket, è soprattutto impegno ed emozione, quella sensazione che lascia addosso una grande partita, una grande giocata. Dunque, ambizione di vincere, che è essenziale per provarci, ma non avidità. E’ una lezione che lo sport italiano, soprattutto il calcio, all’estrema ricerca del colpevole di turno, non riesce a metabolizzare.
“La sconfitta non è un fallimento”, ha spiegato qualche settimana fa un fenomeno, uno scherzo della natura come Giannis Antetokounmpo, campione Nba con i Milwaukee Bucks nel 2021, eliminato dai Miami Heat nel primo turno di playoff e poi sommerso di critiche. Il gigante greco ha ricordato la lezione di Michael Jordan, sei titoli Nba in 15 anni ai Chicago Bulls. Forse il più grande sportivo di sempre che nei primi anni di Nba era considerato un magnifico perdente, un solista, prima che si trovasse sulla sua strada Phil Jackson, scrivendo poi la dinastia dei Bulls.
Jordan, dal palco dell’Hall of Fame per i suoi 50 anni, ha ricordato che in carriera ha soprattutto perso e che la sconfitta è un passo necessario per poi tornare a vincere. Perché si cade, tutti cadono, conta come ci si rialza. Perché ci sono i giorni buoni e quelli meno buoni, quando l’avversario è migliore. L’etichetta del perdente di successo aveva avvolto anche Lebron James, per restare nella Nba, perché il primo titolo Nba è arrivato “solo” a 28 anni, anzi spesso è ancora ritenuto un perdente perché ha giocato dieci (!!) finali Nba, perdendone sei, di cui tre contro i Golden State Warriors.
Per tornare al calcio europeo, una leggenda come Paolo Maldini – non perdiamo tempo a ricordare cosa abbia vinto – ha ripetuto più volte che ha più perso che trionfato in carriera. E pure Carlo Ancelotti, che di successi è accademico universitario, ha elogiato il discorso di Antetokounmpo sul fallimento collegato alla sconfitta sportiva, sottolineando come sia l’impegno profuso nella competizione a demarcare la differenza tra un insuccesso sportivo e un fallimento.
Il discorso, analitico e maturo, di Antetokounmpo sul fallimento va inserito in un dibattito più ampio, sulle pressioni a cui sono costretti gli atleti professionisti con conseguenze sulla salute mentale. I casi sono diversi, quello più eclatante ha avvolto la ginnasta americana SImone Biles, quattro ori a Rio 2016, ritirata per ansia da prestazione ai Giochi di Tokyo, ma la casistica è ormai ampia tra tennis, basket. Se invece si riuscisse – ed è lì la battaglia da edificare – sulla definizione “semplice” di insuccesso sportivo, sulla discrepanza dei risultati ottenuti da un singolo o da una squadra rispetto alle potenzialità, tenendo in considerazione gli avversari e che lo sport non conosce leggi scritte, sarà già un passo in avanti.
di Nicola Sellitti
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