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Facce di colore

I trionfali Campionati europei di atletica leggera in corso allo Stadio Olimpico di Roma sono molto più che un serbatoio di medaglie azzurre

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Facce di colore

I trionfali Campionati europei di atletica leggera in corso allo Stadio Olimpico di Roma sono molto più che un serbatoio di medaglie azzurre

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I trionfali Campionati europei di atletica leggera in corso allo Stadio Olimpico di Roma sono molto più che un serbatoio di medaglie azzurre

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I trionfali Campionati europei di atletica leggera in corso allo Stadio Olimpico di Roma sono molto più che un serbatoio di medaglie azzurre

I trionfali Campionati europei di atletica leggera in corso allo Stadio Olimpico di Roma sono molto più che un serbatoio apparentemente inesauribile di medaglie azzurre. Noi, vecchi appassionati di sport, per decenni abbiamo associato un simile dominio prima al doping di Stato della Repubblica Democratica tedesca e dell’Est comunista, poi allo strapotere sovietico e russo, per passare dalle fasi di grande qualità britannica o francese. Per gli azzurri grande tradizione, ma mai questo knockout tecnico agli avversari.

Frutto di una messe di atleti giovanissimi, di straordinario talento, perfettamente allenati e spesso di colore. Lo scriviamo chiaro e tondo, perché – nel considerare totalmente, assolutamente e indiscutibilmente arcitaliani Mattia Furlani, Lorenzo Simonelli, Chituru Ali, Yeman Crippa e tanti altri, oltre il già leggendario Marcell Jacobs campione olimpico nella gara delle gare – non vogliamo ipocritamente far finta di non vedere la tonalità dell’epidermide.

Perché politicamente non adeguato sottolinearlo o poco consono a certe letture politiche che hanno consigliato di oscurare le foto di questi splendidi ragazzi in alcune prime pagine. O anche perché, all’opposto, bisogna farne uno strumento di rivalsa contro pittoreschi personaggi e assai ridicole teorie.

Sono neri, sono italiani, sono atleti potenzialmente fenomenali. Sono italiani perché i genitori hanno scelto di vivere in Italia, per cercare un futuro e regalarlo ai propri figli. Per amore, per adozione, per felice casualità o chissà quanti altri motivi. Sta di fatto che Mattia, Lorenzo, Chituru, Yeman, Marcell hanno le stesse identiche facce che i nostri figli incontrano ogni giorno quando entrano a scuola. Sono l’Italia dell’integrazione reale, spesso faticosa ma seria e consapevole, contrapposta a un Paese narrato che non si capisce dove dovremmo incontrare. Incarognito.

Non è vuoto buonismo, perché lo sport ai massimi livelli è tutto tranne che buonista: è ferocemente competitivo e selettivo. Quindi, il ‘volemose bene’ non c’entra nulla. Questi ragazzi hanno trovato nello sport, nei loro allenatori e mentori, una forma di affermazione personale libera da qualsiasi rivalsa. Non si vince per ‘vendicarsi’ (di cosa?), si vince perché si è capaci di fare i conti con sé stessi: il primo avversario quasi sempre è in noi. Con tutte le paure, le comfort zone, i «Questo non lo puoi fare».

Siamo convinti che i loro maestri avranno raccontato a questi ragazzi di un giovanotto taciturno che su qualche pista scalcagnata del Sud decise di mettere in fila il mondo e ci riuscì. Pietro Mennea era bianco, in una disciplina già allora dominata dagli atleti di colore, tanto per ricordare che si rischia sempre di essere i ‘neri’ di qualcun altro. Quest’Italia merita di essere rappresentata con serietà pari all’impegno allora di pochi fenomeni e oggi di una generazione di fenomeni, che permette a noi tutti di esaltarci e imparare qualcosa.

Di Fulvio Giuliani

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