La fatica dei fratelli Abbagnale
La fatica dei fratelli Abbagnale
La fatica dei fratelli Abbagnale
Fatica, metodo, talento. Ma c’è stato anche un qualcosa di intangibile tra Napoli e dintorni che ha reso il capoluogo campano l’epicentro dello sport italiano negli anni Ottanta. Il Napoli di Maradona, l’oro olimpico di Patrizio Oliva, scherma e pallanuoto ai vertici mondiali. E ci sono stati gli Abbagnale, maestri del canottaggio nella specialità due con, due ori olimpici e sette mondiali vinti tra il 1981 e il 1991.
Su Rai3 è andato in onda il docufilm “Due Con” di Felice Bagnato e Gianluca De Martino girato al Circolo Nautico di Castellammare di Stabia sui leggendari fratelli nati a poche centinaia di metri, a Pompei. Dall’infanzia al lavoro nei campi sino ai trionfi a cinque cerchi, il racconto di una grande storia italiana dalla voce dei fratelli, dello zio (Giuseppe La Mura) che li ha avvicinati al canottaggio e di Peppiniello Di Capua, il timoniere dei trionfi. Abbagnale primi al traguardo, la voce rotta dall’emozione di Giampiero Galeazzi: un pezzo di cultura pop che ha raccolto milioni di spettatori davanti alla tv. L’incastro perfetto, per fratelli diversi l’un dall’altro, partiti dal nulla, che si allenavano all’alba, prima della scuola e poi fino al tramonto. Che non sapevano neppure nuotare, prima di iniziare a vogare.
«La diversità caratteriale tra me e Carmine è stata decisiva per i nostri successi. Io agonista, lui silenzioso e riflessivo. Confronti duri, sinceri, vite diverse, amicizie diverse. Abbiamo litigato tanto, vinto di più. Ci ha accomunato la voglia di sacrificarsi, il fuoco per arrivare lontano. Resta questa la ricetta per emergere anche oggi, anche se lo sport è cambiato tanto. Più scientifico, meno spontaneo, eppure resta la base per la crescita dei più giovani» spiega Giuseppe Abbagnale, il fratello maggiore, presidente della Federazione Italiana Canottaggio. «Da ragazzi si giocava anche in strada, i giovani erano più dinamici, mentre ora sono assuefatti agli smartphone. Forse è inevitabile, lo comprendo, ma si perde in socialità».
La vetrina dei trofei degli Abbagnale sarebbe stata meno ricca se Giuseppe si fosse ritirato dopo l’oro di Seul 1984. L’opzione era concreta: per un dilettante, seppur fuoriclasse, c’erano poche garanzie per il futuro. Impensabile oggi, come se Gregorio Paltrinieri o Matteo Berrettini si ritirassero per un altro lavoro. «Ero preoccupato per il mio futuro, pensai fosse meglio far fruttare il diploma all’Isef accettando l’incarico in qualche istituto scolastico del Nord. Fui convocato dall’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi, poi ho remato fino al 1993. Nel frattempo ho vinto un concorso alla Bnl per un posto in banca. Non volevo davvero ritirarmi: c’era ancora amore per il canottaggio, che in famiglia resta una specie di religione. Mio figlio è canottiere, mia figlia è cresciuta allenandosi sulle imbarcazioni, mio fratello Agostino ha lavorato come tecnico federale. E poi Carmine, che per un periodo si è preso cura del Centro nautico a Castellammare di Stabia, dove siamo divenuti grandi».
di Nicola SellittiLa Ragione è anche su WhatsApp. Entra nel nostro canale per non perderti nulla!
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