Gioie emigranti
Il Marocco ai Mondiali in Qatar: la vera rivelazione e rivoluzione. Una squadra di migranti, nel senso più compiuto e bello che ci sia. Esattamente come noi italiani, anche se ci fa fatica ammetterlo.
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Il Marocco ai Mondiali in Qatar: la vera rivelazione e rivoluzione. Una squadra di migranti, nel senso più compiuto e bello che ci sia. Esattamente come noi italiani, anche se ci fa fatica ammetterlo.
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Il Marocco ai Mondiali in Qatar: la vera rivelazione e rivoluzione. Una squadra di migranti, nel senso più compiuto e bello che ci sia. Esattamente come noi italiani, anche se ci fa fatica ammetterlo.
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Il Marocco ai Mondiali in Qatar: la vera rivelazione e rivoluzione. Una squadra di migranti, nel senso più compiuto e bello che ci sia. Esattamente come noi italiani, anche se ci fa fatica ammetterlo.
Il Marocco è indiscutibilmente la squadra del giorno, anzi del Mondiale. Perché è la prima africana a raggiungere le semifinali della Coppa del Mondo, risultato storico di suo e che non necessiterebbe di ulteriori commenti o approfondimenti. Un traguardo più o meno impronosticabile che ha già consegnato i ragazzi del ct Regragui a imperitura memoria, non solo dalle parti di Casablanca o Marrakech.
C’è tanto altro, però, mentre domani i “Leoni dell’Atlante” si giocheranno l’impensabile sfidando i Campioni del Mondo in carica della Francia. Un altro incrocio ricchissimo di spunti extra calcistici, dopo quello vinto con i rivali di sempre spagnoli. Contro la Francia, se possibile, lo scontro sarà ancora più “intimo”, opponendo i marocchini al Paese di cui parlano la lingua e le cui influenze culturali e coloniali sono indelebili, per quanto comprensibilmente respinte (almeno in buona parte) da una comunità orgogliosa della propria modernità e di essere un faro di stabilità e sviluppo nell’intera regione del Maghreb.
La Nazionale marocchina, peraltro, non può che restare ciò che è: una compagine di talenti sopraffini, che spesso il Marocco l’hanno conosciuto soprattutto attraverso i racconti dei genitori emigrati lontano dall’Africa. Una squadra di migranti, nel senso più compiuto e bello che ci sia: ragazzi che hanno scelto la casacca rossoverde per amore e convinzione, loro che in molti casi avrebbero potuto giocare anche per i Paesi d’adozione, il più delle volte vere e proprie potenze mondiali del pallone rispetto al Marocco. Che le stelle della Nazionale siano i più classici figli della diaspora – Zyech e Amrabat nati nei Paesi Bassi, Hakimi in Spagna, solo per fare tre nomi particolarmente noti – non fa che rafforzare il legame fra il gruppo creato da mister Regragui e un intero Paese. Quello che segue da casa le imprese di una squadra entrata già nella storia e quello, certo non meno orgoglioso e commosso, che ha festeggiato in cento diverse città sparse per il mondo. Italia compresa, con la gioia coloratissima e irrefrenabile di Milano, Napoli, Torino e così via. Una festa che proprio noi non possiamo che riconoscere, popolo di emigranti che osserva un altro popolo di emigranti far sue per una volta strade e piazze di un Paese straniero. Certo non sempre dolce di sale, anche con una delle comunità più numerose e integrate nei nostri confini.
Proprio noi italiani non dovremmo alzare il sopracciglio o riservare sorrisi di compatimento all’indirizzo delle feste marocchine. Consiglieremmo di dare un’occhiata a come reagirono i nostri connazionali ai Mondiali del 2006 in Germania, al trionfo azzurro in semifinale contro i padroni di casa. Ancora, le feste in una moltitudine di ristoranti italiani in giro per il mondo o nelle infinite mini Little Italy al trionfo europeo di Wembley del 2021. Toni, colori ed entusiasmo non appaiono certo dissimili da quanto abbiamo visto dopo la vittoria maghrebina sul Portogallo.
Anche se a volte ci infastidisce ricordarlo, restiamo un popolo di emigranti che hanno fatto spesso fortuna e in quella festa marocchina possiamo rivedere alcune piccole, innocenti rivincite che ci siamo presi nel tempo e soprattutto l’insopprimibile voglia di portare i figli lì, dove i genitori tante volte non hanno avuto neppure il coraggio di sognare.
di Fulvio Giuliani
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