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Gregg Popovich, ultimo coach-monumento dell’Nba

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Vincere è tanto, ma non è tutto. Lo sa bene Gregg Popovich, che l’altro giorno ha annunciato l’addio per motivi di salute alla panchina dei San Antonio Spurs

Gregg Popovich, ultimo coach-monumento dell’Nba

Vincere è tanto, ma non è tutto. Lo sa bene Gregg Popovich, che l’altro giorno ha annunciato l’addio per motivi di salute alla panchina dei San Antonio Spurs

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Gregg Popovich, ultimo coach-monumento dell’Nba

Vincere è tanto, ma non è tutto. Lo sa bene Gregg Popovich, che l’altro giorno ha annunciato l’addio per motivi di salute alla panchina dei San Antonio Spurs

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Vincere è tanto, ma non è tutto. Lo sa bene Gregg Popovich. Che l’altro giorno ha annunciato l’addio per motivi di salute alla panchina dei San Antonio Spurs. Dopo 29 anni durante cui ha centrato cinque titoli Nba e vinto quasi 1.600 partite. Ma più di vittorie e trofei, conta l’eredità (gli americani la chiamano legacy). Quello che resta. Il patrimonio di valori e concetti che in quasi tre decenni è stato capace di costruire. Sfidando lo sport che oggi brucia storie, atleti, risultati in un battito di ciglia.

Popovich – che diventerà presidente della franchigia texana – ha edificato la ‘dinastia Spurs’ ponendo per un quarto di secolo al centro del basket professionistico americano una piccola città del Texas. Che il mondo conosceva soprattutto per Alamo (sì, quella della celebre battaglia). Il Pop (tre sole lettere che bastano a identificarlo per qualunque appassionato di pallacanestro al mondo) ha riscritto con i fatti i dogmi dello sport Usa. E in particolare quelli dell’Nba. Che prevede un’alternanza al successo: si costruisce, si cresce, a volte si vince, poi si riparte da zero. È capitato ai Chicago Bulls di Michael Jordan, è successo più volte ai Los Angeles Lakers. Invece San Antonio è rimasta sempre al vertice. Ha scoperto talenti (soprattutto europei), ha creato quella ‘Spurs culture’ che ha poi portato allenatori e dirigenti cresciuti ‘in casa’ a ruoli apicali in altre squadre.

Tutto – o quasi – è partito da coach Pop: personalità complessa e corrosiva, burbera e sensibile. Uno che ha per esempio aperto gli occhi alla Nba sul valore del basket europeo. Non a caso ha voluto per anni che Ettore Messina – forse il miglior tecnico di sempre del basket italiano – fosse presente nel suo staff. Mentore per i suoi cestisti, non ha mai conosciuto mezze misure. Nel suo spogliatoio ha sempre voluto uomini, prima ancora che atleti. «Tutte le vittorie e le sconfitte svaniscono, ma le relazioni restano con te per sempre» disse in un celebre discorso alla Hall of Fame del 2023.

Più volte fuoriclasse come Tony Parker o Manu Ginobili hanno raccontato delle lunghe chiacchierate avute con lui sulla politica estera, sui diritti civili, sulla vita. Lo stesso Pop non ha mai fatto mancare il suo pensiero sulle violenze della polizia americana sugli afroamericani oppure sull’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca.

Nato nell’allora Jugoslavia da madre serba e padre croato, cominciò a lavorare per i San Antonio Spurs nel 1988, inizialmente come assistente di Larry Brown. Ci tornò nel 1996, dopo un’esperienza di un paio d’anni come vice di Don Nelson ai Golden State Warriors. Poi, l’arrivo che ha cambiato la storia degli Spurs: ecco Tim Duncan, nel 1997 prima scelta al draft (la selezione annuale con cui le squadre Nba scelgono i migliori giovani talenti americani o internazionali). 

Coach Pop lo conosceva, lo aveva ‘studiato’. Duncan già da ragazzino adoperava il mutismo selettivo, parlava poco o nulla. Invece con Popovich si sciolse, forse anche perché quest’ultimo – per approfondire la conoscenza prima di portarlo con sé in Texas – lo raggiunse nelle Isole Vergini, dove Duncan è nato e cresciuto. Nacque così il duo magico che poi è diventato un quartetto, con Ginobili e Parker.

Il manuale Spurs secondo Popovich? Gioco di squadra, tanta circolazione della palla, zero individualismi, profilo basso. Avrebbe applicato lo stesso metro anche con il francese Victor Wembanyama, 223 centimetri di talento irreale da sgrezzare e far crescere a tappe, approdato alla sua corte lo scorso anno a San Antonio. Glielo ha impedito la salute: nel novembre scorso un ictus, poi altri problemi che lo hanno costretto a lasciare per sempre la panchina per accomodarsi dietro a una scrivania. Resterà comunque nella storia.

di Nicola Sellitti

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