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Heysel

Non dimenticare l’Heysel 

Heysel non è più uno stadio. È solo e soltanto Heysel. Solo e soltanto quella strage dove persero la vita 39 persone e ne rimasero ferite 600

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Non dimenticare l’Heysel 

Heysel non è più uno stadio. È solo e soltanto Heysel. Solo e soltanto quella strage dove persero la vita 39 persone e ne rimasero ferite 600

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Non dimenticare l’Heysel 

Heysel non è più uno stadio. È solo e soltanto Heysel. Solo e soltanto quella strage dove persero la vita 39 persone e ne rimasero ferite 600

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Heysel non è più uno stadio. È solo e soltanto Heysel. Solo e soltanto quella strage dove persero la vita 39 persone e ne rimasero ferite 600

Ricordo bene l’istante in cui Francesco Morini – ex stopper della Juve negli anni Settanta e all’epoca dirigente bianconero – mi consegnò all’Hotel Parco dei Principi di Roma i biglietti che forse mi salvarono la vita. Chissà. Sembravo destinato in un primo momento alla Curva Z, quella dove gli hooligans del Liverpool, ubriachi e invasati, avrebbero provocato la strage. I tagliandi che avevo tra le mani erano invece per la curva opposta, la “MNO”. Erano di un colore anonimo, verde pallido tendente al grigio. Stampati su una carta piuttosto grezza, ruvida, con le scritte in due colori. La corona reale del Belgio in rosso così come il numero di serie del biglietto, in basso a destra. In nero invece la scritta “Coppa dei campioni europea per club. Declinata in francese e in tedesco. Non in italiano né in inglese. Mah. Poi il settore. E il prezzo: 300 franchi belgi. Infine, in basso, una scritta che mi lasciò perplesso: «L’organisateur décline toute responsabilité du chef d’accident, de quelque nature qu’il soit, qui pourrait se produire au cours ou à l’occasion du match pour lequel ce ticket est délivré». 

Così c’era scritto, su quel biglietto. Non sul retro del tagliando, no. Non di lato, in caratteri minuscoli. No. Sul davanti e in bella evidenza. Significava, in sostanza, che gli organizzatori declinavano ogni responsabilità in caso di incidenti. Chiaro e tondo, come se ti dicessero «Guarda che qui qualunque cosa ti accada, noi non c’entriamo mica niente, eh!». Non si capisce se fosse più un presagio o più una dismissione anticipata di responsabilità. Lo rilessi. Mi rigirai quel biglietto più volte tra le mani. La finale di Bruxelles del 29 maggio 1985 fu una follia che cominciava fin dal biglietto d’ingresso. Perché ci sono incubi che si travestono da sogni e quando poi lo scopri è troppo tardi e non puoi farci niente.

Deve essere un vizio maledettamente umano, quello della propensione all’oblio. Una specie di basso istinto. Malsano, contagioso. Lo si può scegliere per autodifesa, come anestesia contro il dolore. O si può provare a imporlo a sé stessi e agli altri per comodità, per superficialità. O per vigliaccheria. Heysel è una parola che oggi schiocca come una frustata. Che evoca solo e soltanto quella notte, quella strage. È un termine ormai svuotato del suo originario valore. Heysel non è più uno stadio. È solo e soltanto Heysel. Solo e soltanto quella strage dove persero la vita 39 persone e ne rimasero ferite 600.

Oggi ci resta la memoria. La cui solidità non passa solo attraverso un monumento o un anniversario. Occorre che divenga prima di tutto risorsa condivisa, consapevolezza, comprensione. Una specie di sentimento comune. Occorre che le istituzioni, le scuole, i media sostengano e preservino la memoria. Occorre che la memoria divenga dinamica, un’entità produttiva che parta dal passato ma che sia proiettata sul futuro. Occorre lavorare sulla manutenzione di memoria per i 364 giorni che seguono ogni anniversario dalla strage. Per questo negli anni scorsi abbiamo dato alle stampe “Quella notte all’Heysel” (Sperling & Kupfer), per raccontare dal di dentro cosa accadde quella notte. E per questo oggi con la squadra di Mondadori Studios abbiamo realizzato un podcast: “Dentro l’Heyselcostruito con il racconto di quanto accadde e con le registrazioni ambientali di quella sera e le interviste che realizzai il giorno seguente con un piccolo registratore a cassette. Sono quattro puntate che cercano di far entrare dentro l’Heysel chi ancora oggi sa poco di quella vicenda. E chi vorrebbe capirne di più. Un podcast che abbiamo realizzato con grande cura e rispetto, sostenuto dalle musiche preziose e discrete di Gianluca Casadei. Perché in fondo la memoria è un lavoro. Una scelta. Un compito che spetta a tutti e a ciascuno. Perché senza memoria saremmo luci spente.

di Emilio Targia

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