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Il calcio si è rotto

Per Sporteconomy la bufera di scandali che sta colpendo il calcio italiano è frutto (anche) della debolezza della Serie A
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Il calcio si è rotto

Per Sporteconomy la bufera di scandali che sta colpendo il calcio italiano è frutto (anche) della debolezza della Serie A
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Il calcio si è rotto

Per Sporteconomy la bufera di scandali che sta colpendo il calcio italiano è frutto (anche) della debolezza della Serie A
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Per Sporteconomy la bufera di scandali che sta colpendo il calcio italiano è frutto (anche) della debolezza della Serie A

Il calcio ha un’atavica, per certi aspetti inevitabile, tendenza alla divisione per bande. Sulle “tribù del pallone”, del resto, sono stati scritti fior di trattati e analisi di pregio. Ridursi però a questo tipo di lettura davanti a un fenomeno oggettivamente epocale come quello della sua sostenibilità finanziaria, non sapremmo se definirlo più ridicolo o autolesionista. 

Scontato, eppure doloroso il bailamme mediatico seguito alla penalizzazione inflitta alla Juventus nel processo sulle cosiddette “plusvalenze”. Dal secondo numero de “La Ragione” scriviamo della solare insostenibilità economico-finanziaria del calcio. Un modello (parola grossa) di business che si è gonfiato a dismisura nelle spese, legando i propri ricavi via via in modo quasi esclusivo ai diritti televisivi, che da gallina dalle uova d’oro ben presto si sono tramutati in un sistema-capestro capace di definire presente e futuro dei club e dell’intero movimento. La follia di ingaggi stratosferici anche per comprimari, mezze figure e mezze calzette ha fatto il resto, facendo saltare il banco e costringendo le società ad acrobazie contabili per chiudere in modo (apparentemente) sostenibile i bilanci. Plusvalenze e non solo, come viene sottolineato dall’agenzia Sporteconomy.it, specializzata nell’analisi economico-finanziaria dello sport e del calcio in particolare: «Quello che sta succedendo è frutto dell’estrema debolezza della Serie A italiana come movimento e dell’impossibilità di individuare un sistema oggettivo di valutazione del valore dei calciatori. Un vero e proprio “buco normativo” in cui si sono infilati i club. Da non dimenticare, poi, l’oggettiva differenza fra le uniche due società quotate in Borsa – Juventus e Lazio – e tutte le altre nella disciplina di bilancio».

Le distanze fra proprietà più o meno facoltose sono nel Dna del calcio, ma oggi si rischia (per certi versi è già avvenuta) la spaccatura fra due mondi. Quello delle proprietà multimiliardarie e quelle di un calcio che si arrangia: «È certamente vero – sottolineano da Sporteconomy.it – che abbiamo pochi veri e propri giocattoli per arcimiliardari e tanti club che arrancano. Fenomeno comune a tutta Europa, perché non possiamo dimenticare le enormi difficoltà di una squadra del rango e del blasone del Barcellona. Su questo, poi, si innesta l’estrema debolezza del campionato italiano». Basteranno poche cifre: la Premier League inglese ha un contratto per i diritti televisivi da oltre 4 miliardi di euro e ricavi per 7 miliardi e 300 milioni. La Serie A si ferma a poco più di 1 miliardo di diritti tv e 2,4 miliardi di ricavi. «Non serve molto altro per cogliere le differenze. I nostri club, per provare a tener botta a livello internazionale e puntare ai cospicui incassi garantiti dalla Champions League, sono finiti in un circolo vizioso terribile, fatto di contratti sempre più ricchi ai calciatori e provvigioni sempre più alte ai procuratori, a fronte di ricavi asfittici. La sensazione è che si viaggi verso il punto di rottura del sistema o – bene che vada – una progressiva incapacità competitiva del nostro calcio rispetto ai campionati inglese, spagnolo e tedesco».

Di Diego de la Vega

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