Il destino dei tennisti russi e bielorussi
Il Governo deve fare una scelta che guarda da vicino il destino dei tennisti russi sulla partecipazione agli Internazionali a Roma. Il punto è fare la cosa più giusta per l’Ucraina.
Il destino dei tennisti russi e bielorussi
Il Governo deve fare una scelta che guarda da vicino il destino dei tennisti russi sulla partecipazione agli Internazionali a Roma. Il punto è fare la cosa più giusta per l’Ucraina.
Il destino dei tennisti russi e bielorussi
Il Governo deve fare una scelta che guarda da vicino il destino dei tennisti russi sulla partecipazione agli Internazionali a Roma. Il punto è fare la cosa più giusta per l’Ucraina.
Il Governo deve fare una scelta che guarda da vicino il destino dei tennisti russi sulla partecipazione agli Internazionali a Roma. Il punto è fare la cosa più giusta per l’Ucraina.
Nei corridoi del Foro italico è scoppiata la grana degli Internazionali di tennis e delle sanzioni contro la Russia. Affidato alle due associazioni professionistiche maschile e femminile Atp e Wta, che delegano l’intera organizzazione alla Federazione Italiana Tennis, il torneo romano sarebbe intenzionato a seguire la linea adottata da tutti gli altri, con l’eccezione di Wimbledon. Solo che Wimbledon è Wimbledon e l’aver messo al bando russi e bielorussi è una decisione impossibile da ignorare. Che fare? Fosse solo per Fit, Coni e associazioni dei tennisti non ci sarebbe il minimo dubbio, si andrebbe avanti come previsto. Consentendo, dunque, ai vari Medvedev, Rublev e Azarenka di partecipare regolarmente. Solo che il governo, per essere più precisi il presidente del Consiglio Mario Draghi, sembra intenzionato a spingere perché si segua l’esempio inglese.
Difficile uscirne in modo indolore. Perché il mondo dello sport si è schierato compatto contro la guerra scatenata da Vladimir Putin in Ucraina ma boccia provvedimenti che, come nel caso del tennis o di altre discipline individuali, finiscono per assumere il carattere della sanzione ad personam. Su questo giornale abbiamo preso una posizione inequivocabile sul direttore d’orchestra russo Gergiev, amico personale del dittatore di Mosca. Come il sindaco di Milano Beppe Sala, sostenemmo non fosse possibile confermare le sue direzioni alla Scala se non avesse preso pubblicamente le distanze da Putin e dalla guerra. Il caso, però, è molto diverso da quelli di Rublev (che si è dissociato già nei primissimi giorni) o Medvedev, che non può essere obbligato a condannare, non avendo – a differenza di Gergiev – alcun rapporto consolidato con Putin o aver mai espresso entusiastici giudizi sull’autocrate del Cremlino. Come sempre, tracciare delle linee rosse è complesso, anche quando non c’è dubbio su dove siano la ragione e il torto. Il tennis non è il calcio o il basket, sport di squadra in cui l’esclusione di club o nazionali è il riflesso delle sanzioni applicate al Paese che rappresentano. Negli sport individuali l’atleta vive in un suo microcosmo, gareggia innanzitutto per sé stesso prima ancora che per una bandiera. Colpirlo ha inevitabilmente un sapore più forte e sgradevole, rispetto a sanzionare una squadra. Può apparire un sofisma ma non lo è, perchéescludere da una competizione un atleta in base al suo passaporto pone problematiche etiche evidenti. Come se tutto ciò non bastasse, la decisione presa a Wimbledon, come quella che potrebbe arrivare presto da Roma, ha l’effetto paradossale di favorire la propaganda putiniana. In particolar modo quella sull’assedio dell’Occidente alla Russia, al quale il dittatore fa continuamente riferimento per giustificare la guerra all’Ucraina. Qualsiasi mossa che possa essere letta come una conferma in tal senso è un regalo a Putin. Vale la pena? Nutriamo forti dubbi, anche rifacendoci a precedenti storici non sempre limpidissimi. Proprio noi italiani partecipammo alle Olimpiadi di Mosca 1980, ma per mostrare di aver aderito al boicottaggio deciso dagli Usa per l’invasione sovietica dell’Afghanistan mandammo i nostri atleti senza tricolore e senza inno. Una specie di autosanzione, molto all’italiana. Ancora noi, a differenza dei tedeschi e dei giapponesi, fummo ammessi alle Olimpiadi di Londra 1948, le prime dopo l’immane tragedia della Seconda guerra mondiale. L’escamotage per il diverso trattamento fu sostenere che in Germania e in Giappone non ci fossero governi riconosciuti a cui consegnare l’invito di partecipazione. Un modo per coprire la decisione politica di escludere i più cattivi fra i cattivi e non chi (noi, ma anche altri) era riuscito ad affrancarsi prima dall’orrore nazifascista, partecipando materialmente ma soprattutto moralmente allo sforzo bellico alleato. Si pensi alla nostra Resistenza. Risparmiateci, dunque, la manfrina dello sport da mantenere ‘vergine’ dalle ingerenze della politica. Ci sono sempre state. Il punto è fare la cosa più giusta per l’Ucraina. Di Fulvio GiulianiLa Ragione è anche su WhatsApp. Entra nel nostro canale per non perderti nulla!
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