Inizia il Campionato, ma quanto ci manca il calcio
Il calcio è cambiato con e attraverso la tv generalista, che se ne alimenta, lo rende genere televisivo e risucchia lo sport, la libertà e lo sfogo che esso rappresenta per noi italiani.
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Inizia il Campionato, ma quanto ci manca il calcio
Il calcio è cambiato con e attraverso la tv generalista, che se ne alimenta, lo rende genere televisivo e risucchia lo sport, la libertà e lo sfogo che esso rappresenta per noi italiani.
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Inizia il Campionato, ma quanto ci manca il calcio
Il calcio è cambiato con e attraverso la tv generalista, che se ne alimenta, lo rende genere televisivo e risucchia lo sport, la libertà e lo sfogo che esso rappresenta per noi italiani.
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Il calcio è cambiato con e attraverso la tv generalista, che se ne alimenta, lo rende genere televisivo e risucchia lo sport, la libertà e lo sfogo che esso rappresenta per noi italiani.
È arrivato. Preceduto da strombazzamenti stonati di una folla di opinionisti, voci da social, programmi tv, dibattiti radiofonici, litigate di maniera tra giornalisti e presunti tali. È arrivato a riempire il vuoto lasciato dalla politica, dalla mancanza di profondità nella comunicazione sociale e collettiva. È arrivato fuori tempo nel cuore della stagione più torrida di sempre.
Il Campionato di calcio oggi è l’effigie un po’ sbiadita della società ‘coperta’ in cui stiamo vivendo. Per alcuni l’ultima area di libertà, di sfogo di pensieri e desideri repressi, di linguaggio da trivio che libera la mente, di antitesi della cultura del politically correct che ingloba tutto sotto la cappa di un allineamento perbenista senza pensiero, senza stimoli, senza passioni.
Il calcio è cambiato. Nessun riferimento alle alchimie tecnico-tattiche delle squadre in campo né ai baratri finanziari in cui si dibattono più o meno tutte le società italiane, siano esse di nome e tradizione oppure semplici provinciali. Nessun riferimento ai patetici recuperi di 7-8 minuti che rendono meno spietati i verdetti del campo. Parliamo invece del suo consumo snaturato da centinaia di ore al giorno di chiacchiere, elucubrazioni algebriche sulle medie dei gol presi e rifilati, delle intriganti schede colorate delle pagine televisive, delle immagini passate e ripassate dai prodigi delle moviole di ultima generazione che tolgono il gusto dell’imprevedibilità, dell’errore umano.
Una ridda di parole che ci riporta alla memoria quell’aforisma secondo il quale “il film è la fastidiosa interruzione della pubblicità”. Come dire: la partita è ormai un disturbo delle chiacchiere televisive sul calcio.
Nella sua ossessiva ripetitività, la tv generalista assorbe tutto essendo per natura uno strumento di comunicazione assoluta. Modifica il senso del cinema riducendolo a telefilm, meglio se seriale, meglio se prodotto da una star di Hollywood. Annulla o quasi il teatro, indirizzandolo verso i canali a tema o esaltando in quelli generalisti la sua vocazione a area di sperimentazione comica. Si alimenta di talk show ed ecco che il calcio – come la politica o il gossip celebrato in pompa magna nell’intrattenimento del pomeriggio – diventa genere televisivo con i suoi ruoli, la sua regia, i suoi schemi. Il suo linguaggio. Gli attori del calcio parlato sono tutti onomaturghi, inventori di nuovi termini che hanno perso il gusto romantico del giornalismo creativo di Brera, delle storie degli uomini dietro il mito dell’eroe, servendosi di un dizionario di parole e concetti spesso banali. Quindi, sempre meno sport, sempre più genere televisivo.
Il calcio della società ‘coperta’ è una macchina micidiale di profitti che rendono quella appena incominciata la stagione più anomala del Campionato. Già, perché si fermerà sul più bello del suo lungo cammino, trasferendo in Qatar le emozioni, le delusioni e le ansie della folla solitaria del dio Eupalla, emigrata alla corte di un Mondiale senza alcun senso logico, con la missione già scritta di rendite a diversi zeri.
E tornerà di nuovo come fosse una commedia in due atti distinti, portando con sé il conio di Gianni Brera che lo definì «un male necessario, come il Festival di Sanremo. Come il preservativo».
di Fabio Santini
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