La vita rotonda come un pallone
Questo è uno degli articoli dell’inserto speciale di sabato 2 luglio, interamente dedicato a uno degli ingredienti irrinunciabili della vita: la passione. Parlando di passione e Italia, non si può non parlare di calcio. Parlando di calcio e di Italia, non si può non parlare di Pablito Rossi.
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Questo è uno degli articoli dell’inserto speciale di sabato 2 luglio, interamente dedicato a uno degli ingredienti irrinunciabili della vita: la passione. Parlando di passione e Italia, non si può non parlare di calcio. Parlando di calcio e di Italia, non si può non parlare di Pablito Rossi.
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Questo è uno degli articoli dell’inserto speciale di sabato 2 luglio, interamente dedicato a uno degli ingredienti irrinunciabili della vita: la passione. Parlando di passione e Italia, non si può non parlare di calcio. Parlando di calcio e di Italia, non si può non parlare di Pablito Rossi.
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Questo è uno degli articoli dell’inserto speciale di sabato 2 luglio, interamente dedicato a uno degli ingredienti irrinunciabili della vita: la passione. Parlando di passione e Italia, non si può non parlare di calcio. Parlando di calcio e di Italia, non si può non parlare di Pablito Rossi.
Il calcio, per noi italiani, non è uno sport. Considerazione che è anche una critica, ma soprattutto un omaggio a un gioco incredibilmente semplice, eppur ideale a essere sviscerato, analizzato manco fosse una scienza esatta. Da oltre 100 anni, non c’è nulla che ci faccia parlare più del pallone. Ovunque, in qualsiasi situazione, contesto, ambiente. Il calcio è per tutti ed è di tutti. Ci divide per tribù, spacca famiglie, amici e coppie. L’amore per i colori della propria squadra del cuore è una delle pochissime costanti ferocemente indiscutibili, una passione al suo stato più onesto e sincero: quello dei bambini.
Il calcio ci mostra al mondo per ciò che siamo, polverizzando maschere, consuetudini e talvolta buone maniere. Abbiamo visto cervelli finissimi perdere qualsiasi ritegno o vergogna per un tiro al sette, perfetti estranei abbracciarsi come se ci si amasse da una vita, per dimenticarsi un attimo dopo. È l’eterno fanciullo in noi che ci parla e guai a ignorarlo.
La vita ha il suo procedere, i suoi ritmi, le sue cadenze. Fra questi, pensateci un momento, c’è sempre anche il calcio. In particolare, i Campionati del mondo (un po’ meno, ma non scherzano, gli Europei) o singoli eventi legati al pallone. Ogni generazione di italiani ha il suo ricordo condiviso. I nostri nonni la tragedia di Superga e la fine del Grande Torino, molto più che un lutto nazionale. I nostri genitori Italia-Germania 4-3 (rigorosamente da pronunciare tutto attaccato), la partita per eccellenza.
Noi – che abbiamo avuto il privilegio di veder giocare Diego – il Mundial del 1982, l’infinita gioia collettiva che esattamente quarant’anni fa ci fece tornare la voglia di sorridere alla vita. I nostri figli, invece, l’incredibile Mondiale del 2006, un viaggio dalle stalle alle stelle in 30 giorni. I più piccoli fra noi, ma già innamorati di una palla che rotola, un’altra clamorosa e impronosticabile sorpresa: il titolo europeo di un anno fa a Wembley. Ognuno ha il suo azzurro, ciascuno il suo eroe in mutandoni che misura lo scorrere del tempo. Grandi e inarrivabili agli occhi di noi bambini, poi coetanei e infine dell’età dei nostri figli. Funziona così, ci piace così.
Un uomo ha probabilmente incarnato più di chiunque altro tutto questo: Paolo Rossi. Nato per far goal, era di una semplicità da lasciare senza fiato. È stato per anni l’italiano più famoso al mondo, ma in fin dei conti Rossi era un ragazzo uguale a noi. Come cantava Antonello Venditti. Abbiamo avuto l’onore di conoscerlo e se amiamo il calcio lo dobbiamo molto a quest’uomo gentile. Pablito per sempre.
Di Diego de la Vega
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