Grazie alla Gazzetta dello Sport, ieri mi sono ricordato del ventennale di uno degli episodi più divertenti, surreali e teneri della storia del calcio degli ultimi decenni: la forsennata corsa di Carletto Mazzone sotto la curva dei tifosi atalantini, ospiti a Brescia.
Vent’anni e un giorno fa, il caso volle che mi trovassi in tribuna stampa al Rigamonti, per seguire uno dei derby più accesi, sentiti e purtroppo anche pericolosi del nostro pallone, quello fra Brescia e Atalanta.
Brescia e Bergamo, 30 minuti di macchina e un oceano di incomunicabilità a dividerle.
Quel giorno, Mazzone, con la sua squadra in rimonta sugli orobici, gliel’aveva giurata agli ultras atalantini, che lo avevano ricoperto di cori non proprio amichevoli (eufemismo) per tutta la partita: “se pareggiamo, vengo sotto la curva“.
Detto, fatto.
Carletto, quel pomeriggio, si tolse una trentina d’anni dalle spalle e scattò come ai tempi d’oro, mosso da un’energia incontenibile e antica. Quasi primigenia, che ci fa amare follemente questo sport e che ne determina anche le sue passioni e convulsioni più estreme. Un gesto sbagliato, certo. Condannabile e sanzionabile, altrettanto.
Fu sanzionato, infatti, ma quella corsa illogica, vagamente tragicomica, fu soprattutto di una bellezza struggente.
Il canto del cigno di un calcio che stava tramontando insieme ai suoi protagonisti, personaggi straordinari come Carletto Mazzone. Già allora, uno come lui era in qualche modo fuori dal tempo, oggi risulterebbe una vera e propria reliquia di un passato in tuta (non per una scelta di immagine…) e naïf, ma animato da un’onestà di fondo e da valori umani che oggi dobbiamo andare a cercare con il lanternino.
Fui molto fortunato vent’anni e un giorno a poter vedere dal vivo quella scena.
Al momento e nei giorni successivi, pensai fosse ‘solo’ indimenticabile, in realtà avevo avuto il privilegio di assistere al più spettacolare dei saluti del calcio della mia infanzia.
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