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Sport

Le glorie e la figuraccia

Non stiamo parlando solo di sport: in quanti ambiti il nostro Paese sembra fermarsi sempre alla dimensione del “non è colpa mia”?

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Non stiamo parlando solo di sport: in quanti ambiti il nostro Paese sembra fermarsi sempre alla dimensione del “non è colpa mia”?

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Non stiamo parlando solo di sport: in quanti ambiti il nostro Paese sembra fermarsi sempre alla dimensione del “non è colpa mia”?

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Non stiamo parlando solo di sport: in quanti ambiti il nostro Paese sembra fermarsi sempre alla dimensione del “non è colpa mia”?

Non abbiamo la più pallida idea di cosa accadrà domani, nella finale per l’oro dei Giochi di Parigi 2024 che vedrà l’Italia opposta agli Stati Uniti d’America. Ancora una volta è Julio Velasco a venirci in soccorso, persino con concetti banali: una finale si può vincere e si può perdere, l’importante è non farsi sopraffare dal nervosismo. Più di ogni altra cosa, considerare ciò che si ha (qui e ora…), non quello che è sfuggito in precedenza. 

Lui sa perfettamente di cosa stiamo scrivendo, ricordando quella drammatica finale per l’oro olimpico di Atlanta 1996 vissuta con la sua Italia, eletta la squadra più forte mai vista su un campo di pallavolo a livello mondiale. La partita maledetta, in cui un solo pallone al quinto set portò nell’Olimpo l’Olanda e lasciò all’Italia un rammarico senza fine. 

Quello che Julio Velasco ha respinto al mittente l’altro ieri sera, quando torme di giornalisti gli hanno posto l’inevitabile domanda su quel lontano pomeriggio di 28 anni fa. Conta il “qui e ora”,  tutto il resto è buono solo per costruire scuse preventive, caricarsi di pesi psicologici pericolosi e potenzialmente ingestibili in una partita dall’incredibile pressione come una finale olimpica.

Non stiamo parlando solo di sport: in quanti ambiti il nostro Paese sembra fermarsi sempre alla dimensione del “non è colpa mia”, “sono vittima degli errori altrui”, “ce l’avrei fatta se non avessero brigato tutti contro di me” e così via? 

Se ci fosse stato bisogno dell’ennesima e sgradevole conferma, poche ore dopo la serata perfetta delle azzurre – guidate con serenità e fermezza da un signore di 72 anni che ha scelto di mettersi in gioco per l’ennesima volta senza averne alcun bisogno – l’Italia ha mostrato il peggio di sé nella sceneggiata della nazionale maschile di pallanuoto. Vedere i nostri giocatori voltare polemicamente le spalle agli arbitri durante l’esecuzione dell’inno nazionale ci ha francamente sconfortato. 

Un gesto inutilmente volgare e irrispettoso, anche nei confronti del nostro stesso Paese, stigmatizzato dallo stesso presidente del Voni Giovanni Malagó. Gli azzurri, nei quarti di finale contro l’Ungheria, sono stati battuti anche a causa di un errore arbitrale (riconosciuto) ma sono pur sempre responsabili di aver sbagliato tanto in partita, a cominciare da due tiri di rigore nei tempi regolamentari e altri tre nella serie decisiva. 

C’è sempre un pezzo d’Italia pronto a urlare alla Luna e oggi, grazie ai social, si ha l’illusione di poterlo fare facendosi ascoltare da più persone e più a fondo. Quando in realtà le sparate dei nostri giocatori ci hanno garantito solo una pessima figura internazionale.

L’Italia che ci interessa raccontare ha la dimensione totalizzante della medaglia d’oro nella Madison femminile di Chiara Consonni e Vittoria Guazzoni. Del bronzo nella ritmica di Sofia Raffaeli, del pazzesco argento della Battocletti sui 10.000 e così via. Altro che vittimismo buono solo a preparare le prossime sconfitte. 

di Fulvio Giuliani

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