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L’impegno civile e l’accusa di fare politica

Razzismo e Nba: dopo Donald Sterling è il caso di Robert Sarver.
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L’impegno civile e l’accusa di fare politica

Razzismo e Nba: dopo Donald Sterling è il caso di Robert Sarver.
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L’impegno civile e l’accusa di fare politica

Razzismo e Nba: dopo Donald Sterling è il caso di Robert Sarver.
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Razzismo e Nba: dopo Donald Sterling è il caso di Robert Sarver.
La lega sportiva antirazzista piegata nuovamente dal razzismo. Un report di 70 pagine dell’emittente tv Espn mette all’angolo Robert Sarver, proprietario dei Phoenix Suns (Nba), per misoginia ed espressioni intolleranti. Sarver, tra le varie accuse, avrebbe più volte pronunciato in modo dispregiativo la parola “negro” verso allenatori e cestisti di squadre avversarie. Un colpo all’immagine del campionato di basket, con l’80% di atleti afroamericani, che resta una polaroid in scala ridotta dello sport e soprattutto della società a stelle e strisce, composita e complessa, incapace di liberarsi da un certo tipo di background razzista. Sette anni fa il proprietario dei Los Angeles Clippers, Donald Sterling, è stato bannato a vita dalla Nba dopo un’inchiesta interna su conversazioni private con la fidanzata sugli afroamericani non graditi alle partite dei Clippers, compreso un mito Nba come Magic Johnson. Sterling è stato praticamente costretto a vendere le azioni della squadra californiana, colpito da una condanna unanime (anche dello stesso proprietario dei Phoenix Suns, ora sotto accusa), compresa quella dell’allora presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. Tra i casi Sterling e Sarver, la Nba si è schierata contro le politiche anti latinos di Donald Trump, sostenendo il boicottaggio dell’inno americano in protesta contro le violenze della polizia sui neri. L’inginocchiamento dell’ex quarterback dei San Francisco 49ers (Nfl), Colin Kaepernick ha poi dato vita a un endorsement pubblico, mediatico alla lotta al razzismo subito approvato da Lebron James e altri campionissimi. Il 26 agosto del 2020 la Nba si è fermata: niente partite contro l’ennesimo episodio di violenza. “The times they are a changin” cantava Bob Dylan quasi 60 anni fa: in quelle ore un 29enne in Wisconsin veniva gambizzato con tre proiettili dalla polizia, a maggio a Minneapolis un poliziotto uccideva per soffocamento George Floyd, detonatore del movimento Black Lives Matter. Lebron James propose addirittura di annullare la stagione, intanto Trump definiva la Nba un’organizzazione politica. Un impegno espressamente mediatico per incidere sulle nuove generazioni che vivono online, tanto da portare nel novembre 2020 in Vaticano una delegazione di atleti Nba, ricevuti da Papa Francesco che li elogiava per l’antirazzismo militante della Lega. Ma in quei giorni saltò fuori un altro report di “The Ringersui proprietari Nba che avevano indirizzato verso il Partito repubblicano (quindi per Trump) l’81% delle donazioni per le presidenziali: la prova della spaccatura tra l’impegno antirazzista degli atleti e l’ultraconservatorismo dei loro datori di lavoro. E ora il caso Sarver, nelle ore che hanno riportato la squadra vincitrice dell’ultimo campionato, i Milwaukee Bucks, alla Casa Bianca per la stretta di mano presidenziale sparita nell’era Trump. di Nicola Sellitti

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