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Lo sport e le grandi storie che sa raccontare non esisterebbero senza la fiducia. L’impresa sportiva viene realizzata solo sviluppando una grande fiducia nelle proprie capacità

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Lo sport e le grandi storie che sa raccontare non esisterebbero senza la fiducia. L’impresa sportiva viene realizzata solo sviluppando una grande fiducia nelle proprie capacità
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Lo sport e le grandi storie che sa raccontare non esisterebbero senza la fiducia. Anche con venature romantiche e in alcuni casi addirittura poetiche. Ogni impresa sportiva, dalle più luminose a quelle di noi semplici appassionati, può essere realizzata soltanto sviluppando una grande fiducia nelle proprie capacità: è la base di tutto.
Sin dalla più tenera età, lo sport educa al rispetto di sé e degli altri, in un’eterna tensione fra ciò che possiamo fare e quanto ci è precluso. Almeno in quel preciso istante. Perché – efficace metafora della vita – lo sport impone di provare a spostare sempre un po’ più in là i nostri confini. Insegnano molto di più le sconfitte che le vittorie e per i veri campioni questo significa non perdere mai: o vinci o impari. Da giovani è difficile far pace con il valore della sconfitta. Ci si arriva col tempo, comprendendo che soltanto accettando i nostri rovesci e credendo contemporaneamente in noi stessi avremo la possibilità di costruire le future vittorie.
Muhammad Alì, probabilmente il più grande sportivo del XX secolo e uno dei personaggi più rilevanti nella storia americana del secondo dopoguerra e non solo, vinceva i suoi match ancor prima di salire sul ring. Metteva Ko gli avversari con il cervello. Credeva ciecamente in sé stesso e nella sua ‘missione’ su questa Terra, ma riponeva una fiducia assoluta nel suo maestro, Angelo Dundee.
L’uomo dell’angolo di Alì era quanto di più lontano dal campione del mondo e paladino dei diritti dei neri. Un piccoletto bianco, dal fisico insignificante, figlio di immigrati calabresi. Di cognome faceva Mirena, perché un annoiato e indifferente addetto all’immigrazione aveva trascritto male il vero cognome del padre, Merenda. Scelse Dundee come pseudonimo, in omaggio a un boxeur famoso negli anni Venti e così si avviò alla storia. Angelo era figlio di un’altra terra e di un’altra cultura, era cattolico; Cassius Clay abbracciava invece l’Islam, diventava Muhammad Alì e sfidava il governo degli Stati Uniti d’America sul Vietnam. Ci sarebbero stati innumerevoli motivi per separare le loro strade, ma il campione non lo abbandonò mai e il maestro lo seguì finché poté. Erano legati da un indissolubile, fenomenale rapporto di fiducia.
Il 1° ottobre 1975, a Manila, Angelo Dundee stava per lanciare la spugna prima del quindicesimo round dell’agonico match contro Joe Frazier: il suo uomo non c’era più, era finito, eppure attese un solo istante in più dell’angolo dell’avversario e la spugna a volare sul ring fu quella di Frazier. Dundee sapeva – da qualche parte nel suo cuore, più che nel suo cervello – che Alì aveva un’ultima stilla di energia in più di Joe e Muhammad fu campione del mondo per un’ultima volta.
Solo una fiducia totale ti fa mettere la propria vita nelle mani di chiunque altro. Lo sport lo insegna, senza sconti.
di Fulvio Giuliani
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