Il “caso Juventus” fa molto rumore sia per l’inchiesta in sé, che riguarda il tema delle plusvalenze, sia per il nome della società coinvolta. Guardare solo in casa bianconera significa però perdere un’altra occasione di affrontare il problema nel suo complesso.
Il “caso Juventus” fa rumore per l’inchiesta in sé, sul cosiddetto meccanismo delle plusvalenze, e per il nome della società coinvolta. Come non notare la malcelata soddisfazione fra i supporter, sempre pronti a godere delle sofferenze del ‘nemico’, e anche in una buona parte di critica e giornalismo che ha abbracciato senza ritegno il tifo, per meri interessi di bottega e botteghino.
Non è garantismo di facciata, ma guardare solo in casa bianconera – mentre per l’ennesima volta si fa scempio della presunzione di innocenza e non si dà tempo all’indagine di fare il proprio corso – significa perdere l’(ultima?) occasione di affrontare il problema nel suo complesso. Crediamo da tempo e senza aspettare questa inchiesta che il calcio europeo abbia imboccato una china pericolosissima, fatta di una gestione economico-finanziaria corrente insostenibile, squilibrata rispetto ai ricavi disponibili. Ci si è consegnati, infatti, a una folle corsa delle valutazioni dei giocatori che ha finito per generare a sua volta un’esplosione dei compensi.
Le società, per sovrapprezzo, non hanno trovato strada migliore – per gestire un gioco ormai impazzito – che consegnare le chiavi del forziere ai procuratori. Questi ultimi, a cui non si può fare una colpa di aver saputo curare magnificamente i propri interessi e quelli dei propri assistiti, sono diventati i veri padroni del vapore. Hanno trasformato i contratti non più in una regolamentazione di rapporti di lavoro, ma in pura arma di pressione sulle società. La durata degli accordi fra le parti è nei fatti un pretesto per chiedere via via sempre di più (i mitologici giocatori ‘in scadenza’).
In un sistema del genere, marcio dalle fondamenta, chi ha un reale peso contrattuale fa il bello e il cattivo tempo. Parliamo di una minoranza di atleti di alto o altissimo livello. La massa, però, può tornare molto utile per innescare il meccanismo delle plusvalenze, unico modo rimasto per tenere in piedi i bilanci. La famosa «merda che c’è sotto» delle intercettazioni ancora una volta diffuse in spregio a qualsiasi regola del “caso Juventus”, ma certo non solo della società bianconera.
Esiste tutta una categoria di giocatori, non di rado ignoti al grande pubblico, trasferiti negli anni come pacchi postali dal punto A al punto B, poi al C e al D, consentendo progressivi imbellettamenti dei numeri sempre più sofferenti delle società. Che un meccanismo del genere potesse andare avanti all’infinito era escluso alla fonte, ma è obbligatorio chiedersi dove siano stati nel tempo i consigli di amministrazione, i collegi dei sindaci, i revisori, gli organismi di controllo delle federazioni sportive e, nel caso delle società quotate, anche la Consob italiana (che ora ha acceso un faro sulla vicenda Juve) e gli omologhi europei.
Intanto, questo insano escamotage proliferava e aiutava club medi e anche grandi a reggere l’urto delle proprietà multimiliardarie arabe e russe che hanno fatto saltare il banco negli ultimi dieci anni. Tutti tranquilli, buona parte dei giornalisti compresi. Così, il FairPlay finanziario si è tramutato in una triste barzelletta, aggirato e ridotto a un guscio vuoto, i procuratori si sono comprati il giocattolo e troppe squadre sono sopravvissute e hanno potuto operare sul mercato solo grazie alle plusvalenze. Nel tempo, molti presidenti e direttori si sono dati arie da commissioner dell’Nba, il manager chiamato a dettare le strategie di gestione del campionato statunitense di basket. Particolare: quella è un’azienda che fa utili attraverso lo sport, in cui chi non segue le regole è fuori in tempo zero.
Nel pallone europeo si è invece pensato esclusivamente a far ingrassare il meccanismo, senza curarsi della capacità dello stesso di reggersi sulle proprie gambe. Benvenuti nell’incubo che rotola.
di Fulvio Giuliani
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