Yeman Crippa: uno spettacolare esempio d’integrazione
Yeman Crippa: uno spettacolare esempio d’integrazione
Yeman Crippa: uno spettacolare esempio d’integrazione
Il trionfo di Yeman Crippa è stato uno dei grandi eventi sportivi azzurri di questa meravigliosa estate (di nuovo). La vittoria nei 10.000 metri agli Europei di atletica di Monaco di Baviera ha un valore tecnico indiscutibile, quasi storico, riportando l’Italia in una posizione di leadership nel mezzofondo persa da troppo.
È un tornare agli anni del grande Alberto Cova (“Cova, Cova, Cova, Covaaaa”, nell’indimenticabile urlo del telecronista Paolo Rosi ai Mondiali del 1983), di Stefano Mei, oggi presidente della Federazione italiana di atletica leggera. Sin qui il dato tecnico-sportivo.
C’è un messaggio più profondo, però, nella vittoria di Crippa. La storia di Yeman sembra fatta apposta per le letture politicamente più scontate: il riscatto del ragazzo nero, nato povero sugli altopiani d’Etiopia, rimasto orfano con i suoi fratelli e adottato da una coppia milanese, trapiantatasi poi in Trentino, che trova affetto e sostegno nella sua nuova famiglia italiana e i mezzi per una grande carriera sportiva. Alla faccia delle occhiate oblique e del razzismo più scoperto.
Facile scriverlo, altrettanto semplice guadagnarsi applausi e altrettanti fischi, in base alle inclinazioni politiche di chi ascolti o legga. Un trattamento che Crippa non merita e con lui tutti gli straordinari atleti che stiamo vedendo crescere giorno dopo giorno sotto un solo colore, l’azzurro delle nostre maglie. Yeman è uno spettacolare esempio di integrazione, non solo per i motivi più ovvi, ma perché ricorda qualcosa di potenzialmente anche scomodo. Che la vera integrazione (anche fra italiani nati in Italia da genitori italiani!) la si raggiunge garantendo a tutti eguali condizioni di partenza e il giusto riconoscimento del merito (sul podio). Lo sport, pur con tutti i limiti, mantiene una purezza di fondo: è intrinsecamente egualitario. Perché senza dedizione, spirito di sacrificio, capacità di riconoscere la leadership altrui e il valore dell’insegnamento non si va da nessuna parte. Che tu sia nero, bianco, giallo, con gli occhi tondi, a mandorla e con i capelli crespi o lisci.
Lo sport è un modello naturale di integrazione che dovremmo avere il coraggio di portare in ogni scuola del nostro Paese. Tu corri, io corro, per non restare indietro. Tu studi, io studio per non perdere le migliori occasioni di lavoro. Lo sport ha giudici appellabili nell’avversario, nel cronometro, nelle linee del traguardo, ma essenzialmente in se stessi. Nel riconoscere i propri limiti e superarli senza scuse di comodo.
Eleggere lo sport a modello di integrazione non significa negare il razzismo strisciante o meno con cui un Yeman Crippa, un Marcell Jacobs, una Paola Egonu o un Carlton Myers (molto prima di loro) ci hanno raccontato di aver dovuto fare i conti. Significa sottolineare cosa dovremmo insegnare ai nostri ragazzi, per estirpare la mala pianta dell’ignoranza e del becerismo. Un compito che spetta a noi, sempre.
Riempirsi la bocca di ‘Italia multietnica’ per sostenere o confutare tesi politiche è un’offesa all’impegno e al sacrificio di atleti meravigliosi, a cui dobbiamo un pezzo del nostro buon nome nel mondo. Mettiamoli nelle condizioni di gareggiare al meglio e di far sì che siano scuola ed esempio per i più giovani, invece di sfruttarli cinicamente per la solita vendemmia di like e voti.
di Fulvio Giuliani
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