La Cina inonda i mercati esteri con i veicoli invenduti in patria
Nel giro di quattro anni l’industria cinese dei veicoli elettrici (Ev) ha conquistato metà del suo mercato interno
La Cina inonda i mercati esteri con i veicoli invenduti in patria
Nel giro di quattro anni l’industria cinese dei veicoli elettrici (Ev) ha conquistato metà del suo mercato interno
La Cina inonda i mercati esteri con i veicoli invenduti in patria
Nel giro di quattro anni l’industria cinese dei veicoli elettrici (Ev) ha conquistato metà del suo mercato interno
Nel giro di quattro anni l’industria cinese dei veicoli elettrici (Ev) ha conquistato metà del suo mercato interno, sostituendo le vendite di auto a carburante delle case straniere un tempo dominanti, che in Cina avevano investito enormi somme di denaro con l’idea di continuare a crescere per almeno un altro decennio. Ma a perdere quote di mercato non sono soltanto gli stranieri: anche le aziende cinesi che producono solamente auto a carburante sono state messe nell’angolo dall’ascesa degli Ev nella Repubblica Popolare. Queste aziende hanno reagito piazzando le loro auto – vendute a prezzi stracciati – sui mercati dell’America Latina, dell’Africa, dell’Europa centro-orientale e della Russia, entrando in concorrenza sia con i produttori locali che con i tradizionali marchi europei, statunitensi e giapponesi.
Secondo i dati della società di consulenza cinese Automobility, dal 2020 al 2024 le esportazioni di auto di tutti i tipi sono cresciute da circa un milione di veicoli all’anno a oltre 6,5 milioni. Il boom delle vendite all’estero di auto a carburante – circa due terzi del totale – è stato alimentato indirettamente dalla stessa politica di sussidi di Pechino orientata alla vendita degli Ev sul mercato interno, che ha provocato una guerra dei prezzi che ha schiacciato le attività in Cina di società come Nissan, Volkswagen e General Motors. Un’analisi della Reuters ha mostrato l’impatto globale della politica industriale di Pechino, che obbliga le aziende straniere a tenere il passo di imprese sostenute dallo Stato che inseguono gli obiettivi fissati dal loro governo per affermarsi nei settori strategici o, come in questo caso, ‘scaricare’ sui mercati esteri i propri eccessi di produzione.
Lo scorso anno le sole esportazioni cinesi di auto a carburante (esclusi quindi sia gli Ev sia le auto ibride) sono state sufficienti a rendere la Cina il più grande esportatore di auto del mondo. Le vendite sono trainate dai colossi statali – tra cui Saic, Baic, Dongfeng e Changan – che svilupparono le loro produzioni grazie alle joint venture con le grandi case straniere, che negli anni Ottanta e Novanta accettarono il diktat di Pechino che le obbligava a condividere con i partner cinesi il loro know-how. Poi ci sono le società private o di proprietà mista pubblica e privata – come Chery, Geely e Great Wall Motor – che producono anche Ev. In base alle proiezioni, a fine anno le esportazioni cinesi di auto a carburante raggiungeranno le 4,3 milioni di unità, alle quali vanno aggiunte più di 2 milioni tra Ev e veicoli ibridi.
La destinazione maggiore dell’export di auto dalla Cina è il Messico, dove il governo a settembre ha deciso di prendere delle contromisure aumentando dal 20 al 50% il dazio sulle auto cinesi. Questo perché le vendite di Fiat, Ford e Chevrolet sul mercato messicano stanno pericolosamente perdendo terreno, mettendo in discussione i loro investimenti nel Paese (e quindi i posti di lavoro). L’inondazione di auto cinesi crea problemi persino in Russia, che di quelle auto ha bisogno. Mosca ha infatti dovuto raddoppiare la tariffa sulle auto cinesi, sperando di limitare un flusso di veicoli che sta spazzando via l’agonizzante industria dell’automotive russa. Lo stesso discorso vale per il Sudafrica, che ha chiesto a Pechino di incoraggiare le sue aziende a costruire fabbriche nel Paese, minacciando altrimenti di aumentare i suoi dazi.
La competizione tra i produttori di auto cinesi e i marchi europei, americani e giapponesi si combatte quindi non soltanto in Europa e negli Stati Uniti ma anche nei Paesi emergenti, in base a logiche che vanno oltre le regole del mercato.
Di Federico Bosco
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