Incastrati fra online e offline
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“Io sono confine” è il titolo di una ricerca etnografica condotta dall’antropologo iraniano Shahram Khosravi sulla natura fisica e immaginaria dei confini. Ma “essere confini” e non averli presuppone almeno un assunto di partenza: che il confine non sia un limite esterno, un bordo che delimita e basta, ma qualcosa di vivo, un’esperienza che mette in relazione con l’esterno. Esattamente come l’etimologia di confine suggerisce: composto da cum (con) e finis (fine), il termine indica insieme ciò che separa e ciò che allo stesso tempo unisce.
Il corpo, per esempio, è il confine fra ogni singolo individuo e il mondo: lo contiene e, contemporaneamente, lo porta a spasso attraverso lo spazio e il tempo. Eppure si può affermare, senza tema di smentite, che l’esperienza che ciascuno fa del proprio corpo sia cambiata enormemente negli anni. È quello che filosofi come Luciano Floridi definiscono “onlife”: la «dimensione vitale che si sviluppa dalla costante interazione di materiale e virtuale», cioè fra il corpo e le decine di suoi ‘prolungamenti’ digitali che ne espandono, in un certo senso, le funzioni. Si potrebbe dire che l’espressione “onlife” sintetizzi in una parola sola un ventaglio di esperienze che richiederebbero lunghe frasi per la loro descrizione: siete in cucina, state parlando con Alexa, nel frattempo ascoltate musica da un tablet collegato col Bluetooth a un piccolo altoparlante e intanto leggete la ricetta sull’iPhone. Se qualcuno vi chiedesse «Sei online od offline?», la risposta sarebbe ovvia: «Onlife!».L’esperienza dei confini, tradizionalmente esperiti in quanto soggetti individuali – quando i corpi erano disconnessi, separati dal resto e non perennemente collegati attraverso qualche dispositivo – è forse, almeno in parte, una roba del passato. Certo, non ancora per tutti e in ogni luogo. Lo spiegò con parole perfette William Gibson, uno dei principali esponenti del filone cyberpunk: «Il futuro è già arrivato. Solamente non è stato ancora uniformemente distribuito».
A proposito di futuro, la software house americana Adobe ha presentato un abito interattivo, dotato di centinaia di schermi flessibili. Si chiama Progetto Primrose e potrebbe rivoluzionare l’industria dell’abbigliamento: «A differenza di quello tradizionale, che è statico, Primrose mi permette di rinfrescare il mio look in un attimo» ha spiegato Christine Dierk, una delle ricercatrici di Adobe. La scienziata, con indosso l’abito ‘intelligente’, ha lasciato a bocca aperta il pubblico in sala mentre – premendo un pulsantino e al semplice movimento del suo corpo – colori e pattern dell’abito cambiavano senza soluzione di continuità: «Siamo entusiasti di un futuro in cui ci saranno più modi per esprimere sé stessi» ha concluso poi fra gli applausi.
Gli scrittori cyberpunk – come Philip K. Dick e Bruce Sterling – avrebbero senz’altro detto che anche il futuro era lì, presente, ad applaudire. Mentre fuori (nelle case e per le strade) gli abiti che vestono i corpi delle persone ‘normali’ sono ancora fatti di fibre: naturali, sintetiche, artificiali. Per nulla interattive: confini tradizionali del mondo che è stato. Eppure sono ancora la cosa più vicina a quello che per Christian Dior doveva essere lo “stile”: «Un balletto, lo spruzzo d’acqua nel parco, l’orchestra più sublime dell’eleganza intuitiva». Una cosa viva.
di Ilaria Donatio
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