Catcalling: bisogna parlarne per far sì che qualcosa cambi
Non è ancora chiara la differenza tra catcalling e avances, tra imbarazzo, paura, indignazione e sorriso mortificato.
Catcalling: bisogna parlarne per far sì che qualcosa cambi
Non è ancora chiara la differenza tra catcalling e avances, tra imbarazzo, paura, indignazione e sorriso mortificato.
Catcalling: bisogna parlarne per far sì che qualcosa cambi
Non è ancora chiara la differenza tra catcalling e avances, tra imbarazzo, paura, indignazione e sorriso mortificato.
Non è ancora chiara la differenza tra catcalling e avances, tra imbarazzo, paura, indignazione e sorriso mortificato.
È venerdì notte e sto rientrando a casa dopo una tranquilla serata con amici. Ho un top scollato, l’estate prepotente di Milano non concede respiro, tanto da decidere di non coprirmi pur salendo sul bus. Un uomo sulla quarantina nota la mia scelta, comincia a fissarmi insistentemente.
Provo imbarazzo, istintivamente mi viene da mettere una mano sullo sterno, cerco la giacca nella borsa, poi mi fermo: alzo lo sguardo. L’uomo non ha smesso di fissarmi e ha cominciato a sorridere. Smetto di cercare, comincio a fissare anche io.
Sei un’incosciente, penso dentro di me, te le vai a cercare.
Poi un pensiero: ho caldo, sono stanca, voglio solo tornare a casa senza sentirmi un prodotto esposto nel reparto salumeria di un supermercato. La dignità e la rabbia mi pervadono e lì comprendo che non ho più voglia di abbassare lo sguardo e fare finta di niente, capisco che se voglio che qualcosa cambi devo smettere di avere paura. Mi avvicino un po’ all’uomo in questione e con un gesto chiedo cosa desidera. Lui sorride beffardo, non risponde, poi abbassa lo sguardo imbarazzato.
Scendo dal bus e lo fa anche lui, ma non è solo. I due cominciano a camminare dietro di me, li faccio passare avanti, continuano a voltarsi e fissarmi, iniziano a commentare e fischiare, chiedo di smetterla.
Un ragazzo in bicicletta si ferma a chiedermi indicazioni, i due si allontanano e io torno a casa al sicuro.
No, questo non è un episodio isolato e sì, c’è ancora bisogno di parlarne.
Dialogando dell’accaduto con un amico sulla trentina, alla mia affermazione provocatoria “forse voi uomini dovreste ricevere lo stesso trattamento per comprendere” è stato risposto che a un uomo farebbe piacere ricevere apprezzamenti. Credo che il fulcro di tutto stia in queste affermazioni.
Non è ancora chiara la differenza tra catcalling e avances, tra innocenti apprezzamenti e molestia, tra imbarazzo, paura, indignazione e sorriso mortificato. E non è ancora chiaro perché nel 2021 in Italia parlare di questo è ritenuto un capriccio. Noi donne non siamo ancora prese sul serio, veniamo sminuite, mortificate, taciute con noncuranza.
È necessario chiarire: il catcalling è una molestia verbale ai danni di una persona estranea. Ad oggi in Italia non esiste una legge che contrasti il fenomeno né tantomeno un reale tentativo da parte dello stato di risoluzione del problema (è previsto il reato di molestia che tutela il bene giuridico della quiete pubblica, non la dignità della persona).
Secondo un’indagine Istat, il 75% delle donne in Italia ha subito molestie negli spazi pubblici, ma noi cosa possiamo fare davvero per attuare un cambiamento dal basso? Alcune iniziative stanno provando a fare la differenza.
Hollaback ad esempio, movimento nato a New York e arrivato poi in Italia, tenta di contrastare il fenomeno attraverso un’educazione mirata grazie al progetto Stand Up: un programma di formazione studiato per prevenire le molestie in luoghi pubblici e costruire uno spazio sicuro e inclusivo per tutti.
Catcalls of Milan e Catcalls of Turin, ispirandosi a Catcalls of Nyc, combattono attraverso una protesta tra le strade delle città, scrivendo sui marciapiedi con gessi colorati le testimonianze ricevute sulle pagine social per lasciarle impresse nella mente dei passanti.
Il vero problema è che questi atteggiamenti sono così radicati nella nostra cultura da non permettere nemmeno a noi donne spesso di accorgerci di quanto siano umilianti.
Siamo abituate fin da ragazzine a ricevere fischi, parole, sguardi insistenti e a tenere la testa bassa e andare oltre per non avere problemi.
Siamo propense a giustificare, perché “gli uomini sono tutti uguali”.
Siamo schiave di cliché che non hanno fatto altro che permettere al machismo di diffondersi. E la cosa più importante di tutte è che non parliamo di deviati ma di persone qualunque: il panettiere in fondo alla strada, il ragazzo in felpa al parco, il signore sul bus all’una di notte. Sono padri, mariti, fratelli, sono persone comuni.
Noi donne non saremo davvero libere fino a quando non potremo uscire la sera e tornare tardi senza sentire nella testa l’eco della voce dei propri genitori che dice “stai attenta, fatti accompagnare”. Non saremo davvero libere fino a quando non potremo permetterci di viaggiare sole. Non lo saremo fino a quando non ammetteremo di avere un problema e di doverlo combattere.
Il punto è: cosa stiamo aspettando?
Di Elena Bellanova
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