Collegno, genitore aggredisce un 13enne in campo: il ragazzo finisce in ospedale
La vicenda di Collegno (Torino) in un amen è diventata un trend topic, rimbalza sui social, apre dibattiti e – si spera – smuove un attimo le coscienze
Collegno, genitore aggredisce un 13enne in campo: il ragazzo finisce in ospedale
La vicenda di Collegno (Torino) in un amen è diventata un trend topic, rimbalza sui social, apre dibattiti e – si spera – smuove un attimo le coscienze
Collegno, genitore aggredisce un 13enne in campo: il ragazzo finisce in ospedale
La vicenda di Collegno (Torino) in un amen è diventata un trend topic, rimbalza sui social, apre dibattiti e – si spera – smuove un attimo le coscienze
Un genitore che balza in campo e aggredisce un 13enne – avversario del figlio -, spedendolo all’ospedale, con un trauma cranico e osso del piede rotto e quelle immagini della violenza subita che chissà quando – e se – passeranno. La vicenda di Collegno (Torino) in un amen è diventata un trend topic, rimbalza sui social, apre dibattiti e – si spera – smuove un attimo le coscienze. Il 40enne genitore aggressore in una partita di calcio under 14 dopo il litigio del figlio con un avversario è stato denunciato per lesioni dai Carabinieri intervenuti subito dopo le botte. Ci sono, ovviamente, le condanne unanimi di chi ha assistito alla feroce scena. Una sceneggiatura già vista.
Poi ci sono domande, inevitabili e in verità ricorrenti per chi è genitore e frequenta i campetti nei weekend per le partite dei figli. Perché di episodi del genere, anche meno gravi, se ne vedono con continuità. Cosa spinge un adulto, un padre, a scavalcare e saltare addosso a un ragazzino o un arbitro che ha la metà dei suoi anni? Si chiama sete di vendetta sportiva? Oppure di un danno nei confronti dello sport, o ancora un atto di prevaricazione verso suo figlio?
Soprattutto, il figlio del genitore del fattaccio di Collegno o il figlio di chi minaccia arbitri, calciatori, altri genitori, come deve sentirsi poi? Che tipo di messaggio gli arriva e poi come sarà accolto nella sua comunità dai suoi pari età, dove il passaparola è veloce e il potere della disintermediazione ancora non esiste? Sarà isolato, vivrà di riflesso da emarginato?
La risposta non ci sono, non ci saranno. E questi casi si verificheranno sempre, mentre sulla frequenza di questi casi di violenza brutale ci si può e deve lavorare, senza cadere in esercizi di psicologia applicata. Partendo dalle parole del padre del ragazzino aggredito a Collegno, ancora incredulo, alla domanda del figlio se potesse mai fare violenza su un minorenne per una partita di calcio, cioè mai, ovviamente.
Il punto è che non tutti siamo immuni dai fenomeni di rabbia.
A bocce ferme, nessuno o quasi potrebbe ipotizzare uno scenario simile. Poi si accende la fiamma e questo purtroppo spesso accade sui campi di calcio, dove si condensano maggiormente le aspettative (e le frustrazioni) dei padri, delle madri, di ogni estrazione sociale, sul futuro dei figli, soprattutto su quelli che mostrano appena un pizzico di talento in più della media generale. Avviene meno in altri sport di squadra come basket, volley, meno ancora nel rugby, sport di lotta e fatica che al fischio finale vede gli avversari assieme nello spogliatoio per una birra collettiva.
Sembra scontato ripeterlo, ma il primo pronto intervento deve essere effettuato a casa, in famiglia, spiegando – insistendo – il ruolo dello sport, evidenziando gli elementi positivi, ossia la condivisione della fatica, l’impegno costante per arrivare a un risultato di gruppo. E poi anche a scuola, dove lo sport viene messo costantemente dietro alla lavagna, spesso ridotto a partitelle in palestra o con ore cedute ad altre materie, ritenute prioritarie. E’ una questione di cultura sportiva da inculcare e serve tempo, ore. Solo così, forse, questi gesti insani diventeranno più isolati.
di Nicola Sellitti
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