Non serve il conteggio dei deputati e senatori assenti martedì al discorso del presidente ucraino Volodymyr Zelensky al Parlamento in seduta comune. Non sarà certo il numero di chi, per i più svariati motivi, ha ritenuto di non presenziare a cambiare la nostra valutazione su un sentiment che in Italia è molto diffuso. Per essere chiari e diretti, i putiniani del nostro Paese sono numerosi e non si nascondono, espressione variegata di quel rumore di fondo che ha accompagnato una lunga stagione italiana. Hanno radici antiche e composite, non tanto ideologiche ma legate a un generico rifiuto dei valori fondanti del nostro mondo e della nostra democrazia.
Li conosciamo da ben prima dell’affermarsi dell’ondata populista, perché cominciarono la loro sistematica demolizione dei princìpi occidentali all’epoca dell’antiglobalizzazione. Non certo a caso, oggi sono stati i primi a recitare di gran carriera il de profundis del mondo sorto dalle ceneri della Guerra fredda. Un giudizio tanto affrettato quanto privo di basi logiche. È indiscutibile che la realtà finirà per essere influenzata dalla scelta criminale e violenta di Vladimir Putin (lo è già), ma non torneremo ai mercati chiusi o ai cortili sognati dai profeti della decrescita felice. Se non credete a noi, potete scegliere di credere al governo cinese, che una settimana fa – con la guerra in Ucraina in pieno svolgimento – ha annunciato un poderoso programma di sostegno all’economia che ha messo le ali alle piazze finanziarie asiatiche. A chi dovrebbe vendere la Cina, se non a noi occidentali? Qual è il loro mercato di riferimento, se non il nostro? In un mondo globalizzato, s’intende.
Torniamo, però, al percorso dei fratelli maggiori dei putiniani di oggi: da ‘no global’, confluirono festosamente nelle armate dei ‘vaffa’ e del populismo trionfante della Brexit e del trumpiano “Make Great America Again”. Si sono evoluti, poi, senza colpo ferire in legioni di no-vax e di sostenitori delle teorie antiscientifiche più beote, per approdare infine al putinismo di riflusso. Persino loro, infatti, sono rimasti qualche giorno scioccati dalla violenza dell’attacco proditorio e ingiustificabile all’Ucraina. Solo il tempo di riaversi, però, e hanno cominciato il solito lavorio ai fianchi, fra media e social. Ogni giorno è un po’ peggio, inutile nasconderselo, per quella stanchezza determinata dal prolungarsi della guerra a cui facevamo riferimento nel numero di ieri. Ogni giorno che passa – pur fra le indicibili sofferenze imposte ai civili da un’armata russa impantanata in assedi senza senso strategico – quinte colonne e volenterosi propagandisti del Cremlino possono giocare la carta antioccidentale di sempre: il pacifismo unilaterale.
Non l’hanno certo inventata loro, la conosciamo e ricordiamo bene dai tempi dell’America con la “K“. Arma di incredibile forza e cinismo, che si può sfoderare insieme alla faccia di circostanza nei talk televisivi, in cui si costruiscono senza troppa vergogna i soliti teatrini delle divisioni per bande. Anche in questo caso, siamo passati con sorprendente agilità dai dibattiti fra i pro e contro i vaccini a quelli fra i pro e contro Zelensky e Putin. Un modo di fare informazione che non aggiunge nulla alla comprensione della realtà, ma è in fin dei conti solo l’ennesimo frutto della stagione che abbiamo appena ricostruito. Di una serie di tappe, in cui troppi non hanno cercato di ragionare e capire, ma solo di schierarsi contro questo o quello.
Che si tratti di un vaccino o di una guerra poco cambia, perché si è disposti a mettere insieme tutto, a mescolare con raggelante indifferenza pandemia, guerra, storia e geopolitica. Senza curarsi della dignità.
di Fulvio GiulianiLa Ragione è anche su WhatsApp. Entra nel nostro canale per non perderti nulla!
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