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La pochezza del male

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Immaginare summit in stile cinematografico è molto più consolante che dover ammettere la presa ferrea della criminalità organizzata sul nostro Paese 

La pochezza del male

Immaginare summit in stile cinematografico è molto più consolante che dover ammettere la presa ferrea della criminalità organizzata sul nostro Paese 
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La pochezza del male

Immaginare summit in stile cinematografico è molto più consolante che dover ammettere la presa ferrea della criminalità organizzata sul nostro Paese 
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Matteo Messina Denaro è morto portando nella tomba tutto il suo disonore, l’eco di una vita ignobile e di azioni raccapriccianti. Anche qualche polemica vagamente surreale sul rifiuto del funerale religioso, escluso dallo stesso criminale in una nota di suo pugno, in segno di protesta contro la Chiesa ‘corrotta’. Anche se, a sua volta, la stessa Curia siciliana ha reso noto di non volergli concedere il conforto dell’ultimo saluto. Una questione che attiene alla sfera della fede e della Chiesa, su cui non ci sentiamo di dover aggiungere nulla.
Un altro aspetto, invece, ci coinvolge tutti: la sfera dei misteri o presunti tali. Lungo i decenni della latitanza e nel tutto sommato breve periodo di detenzione dopo la cattura, le dietrologie hanno costantemente accompagnato la carriera criminale di un uomo tanto spietato e rivoltante quanto dai limitatissimi orizzonti. Ha conosciuto e praticato soltanto la violenza di stampo mafioso, trattando lo Stato e i suoi servitori neppure come dei nemici – cosa che avrebbe presupposto l’idea abietta, ma comunque un’idea, di anti-Stato – ma solo come un intralcio all’unica cosa che abbia inseguito per tutta un’esistenza: il potere locale e i soldi. La fine della lunghissima latitanza di un soggetto del genere, le modalità stesse della cattura in una giornata apparentemente come un’altra, in un’atmosfera quasi surreale e di incredibile distanza fra la ‘mitologia’ perversa del superboss e la realtà di un quasi vecchio malato e senza alcun apparato di protezione intorno a sé, sembrano fatte apposta per alimentare la leggenda. Se escludessimo la malattia.
Ecco, la malattia: quasi certamente lo snodo della fine della latitanza e – almeno in parte – del potere di Matteo Messina Denaro. Secondo chi ha lavorato alla cattura del boss, indiscutibilmente l’esigenza di cercare di sottoporsi a cure specialistiche ha ristretto le opzioni del latitante e indirizzato l’indagini. Lui stesso, conscio dell’approssimarsi della fine, può aver consapevolmente scelto di correre rischi prima inconcepibili pur di farsi curare per quanto possibile. C’è anche l’ipotesi ‘estrema’ di una sorta di resa non allo Stato (mai neppure compreso da Messina Denaro) ma alla realtà e alla necessità di farsi curare. Ogni ipotesi è teoricamente valida, forse lo sono tutte in parti diverse. Non c’è bisogno di cercare a tutti i costi burattinai, manovratori e poteri che nell’ombra hanno prima favorito la lunghissima libertà e poi ne hanno determinato la fine. In tutta franchezza non c’è nulla di misterioso anche nell’inconcepibile latitanza, resa possibile soltanto da una diffusa rete di connivenze e protezioni. Fatta di tanta gente apparentemente ‘normale’. È sufficiente non chiedere per farsi complici, senza neppure provare il fastidio di doverlo ammettere a sé stessi. Il potere, la paura, la convenienza, i soldi – tanti soldi – spiegano molto più degli infiniti misteri.
 
Tutto sommato, immaginare grandi vecchi o summit in stile cinematografico (e anche ragionare di impossibili ‘perdoni’) è molto più consolante che dover ammettere la presa ferrea e soffocante della criminalità organizzata su interi pezzi del nostro Paese, abitanti compresi. Di Fulvio Giuliani

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