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Orban Salis

La trappola di Orbán

Sul caso di Ilaria Salis, Orbán non aspetta altro che mostrare quanto il governo italiano non possa interferire sull’indipendenza dei magistrati
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La trappola di Orbán

Sul caso di Ilaria Salis, Orbán non aspetta altro che mostrare quanto il governo italiano non possa interferire sull’indipendenza dei magistrati
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La trappola di Orbán

Sul caso di Ilaria Salis, Orbán non aspetta altro che mostrare quanto il governo italiano non possa interferire sull’indipendenza dei magistrati
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Sul caso di Ilaria Salis, Orbán non aspetta altro che mostrare quanto il governo italiano non possa interferire sull’indipendenza dei magistrati
Si tratta di una trappola. Far intendere che il capo del governo italiano ne abbia parlato con l’omologo ungherese, per far vedere che qualche cosa si è pur fatta, è un errore. Va risolutamente negato, senza ammiccamenti. Perché Orbán non aspetta altro che gli si chieda di intervenire su un procedimento penale: così potrà dare una lezione di diritto, spiegare che il governo non può interferire e coronare il suo sogno di sentirsi chiedere quel che è giusto rimproverargli, ovvero di avere menomato l’indipendenza dei magistrati. La sceneggiata delle catene serve a questo e non è cadendo nella trappola che si arrecherà beneficio a una imputata. La questione va presa partendo dal fatto che se la giustizia italiana (e su questo sì che i governi hanno potere d’intervento) nega l’estradizione di un altro italiano, imputato in quel medesimo procedimento, compie una scelta giusta ma gravissima. Perché negare l’estradizione in un Paese dell’Unione europea non solo significa mettere in dubbio la sua affidabilità giudiziaria, ma l’appartenenza stessa all’Ue. Cosa che, del resto, ha già fatto la Commissione europea, avviando una procedura d’infrazione proprio per violazione dello Stato di diritto. Avverso tale procedura l’Ungheria – assieme alla Polonia – fece ricorso alla Corte di giustizia. E perse. Ma ricordo che, appena due anni fa, chi oggi governa si mostrava pappa e ciccia con Orbán. L’odierna posizione della Lega – secondo cui ciascuno è libero di punire come gli pare (roba da matti) – era condivisa dal resto della destra. E se oggi si interloquisse con un governo per chiedere il rispetto di uno specifico imputato, lasciando al loro destino tutti gli altri, si tratterebbe non di una furbata a sfondo falsamente patriottico ma di complicità nella menomazione dello Stato di diritto. Certo che portare un imputato incatenato in Aula è una intollerabile angheria. Certo che le carceri ungheresi sono già state considerate un posto non civile, per sovraffollamento e igiene. Ma da che pulpito viene la predica. In Italia s’è fatta la stessa cosa e s’è poi approvata una legge che proibisce di fotografare soggetti ammanettati, ma guardate il risultato: si fotografano gli ammanettati e poi si mette il pallino bianco sulle manette. Il che segnala con maggiore evidenza che è ammanettato. Non parliamo del sovraffollamento e taciamo che, dall’inizio dell’anno, in carcere c’è un suicida ogni due giorni. Vero che siamo più numerosi degli ungheresi, ma vero anche che abbiamo molte più condanne per denegata giustizia e violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, emesse dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Che non è un organo dell’Unione europea, ma del Consiglio d’Europa. Mettersi a dar lezioni sul rispetto della Cedu sarebbe grottesco. Non possiamo dire niente? Possiamo eccome. Da un lato affermando che il ricatto di Orbán deve essere respinto e che sospendere l’erogazione di fondi europei in ragione della sua politica giudiziaria e sul rispetto dei diritti individuali non è – come sostiene lui – un ricatto, ma la risposta di diritto a un ricattatore. E possiamo farlo a maggior ragione adesso che la sua azione ricattatoria si estende alla sicurezza militare di tutti, perché il suo ostacolare i finanziamenti all’Ucraina si traduce in un appoggio a Putin, vale a dire a una minaccia alla sicurezza europea. Non si negozia piatendo, ma chiarendo le conseguenze della sua condotta. Sul caso specifico ci si muove per le vie diplomatiche interne, senza offrire il palcoscenico della resa alla barbarie. Ci si è riusciti con l’Egitto e relativamente a un cittadino egiziano, ci si può riuscire con un Paese dell’Ue. Molto si sarebbe già dovuto farlo, dal febbraio dell’anno scorso. E serva da lezione: se si prendono voti antieuropeisti criticando la Commissione per la giusta azione, poi ci si ritrova a subire il dileggio e i ricatti di uno con cui nessuna forza politica che tenga alla sovranità europea e al diritto dovrebbe supporre di potersi alleare. Di Davide Giacalone

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