Le reazioni al ponte di ferro in fiamme sono improntate alla nostalgia. Eppure, questo momento non ha bisogno di sentimentalismi, ma di lavoro collettivo.
Questa mattina leggo una marea di tweet e post (come inevitabile) a commento dell’incendio che ha avvolto il ponte di ferro a Roma. Non sappiamo ancora nulla di preciso sulle cause del rogo e al momento possiamo discutere solo dell’ennesimo, plastico esempio dello stato in cui si è ridotta la capitale.
Magari sarà solo una sfortunata coincidenza, ma quando un evento di questo tipo arriva dopo lunghissimo periodo di “sofferenza” di tutta una città, della sua immagine, del suo essere degna di una storia e di una bellezza senza pari, è logico viverla come un segno.
Delle responsabilità di un’intera comunità, che vanno ben oltre questa o quella amministrazione, questa o quella forza politica.
Non scriviamo così perché proprio oggi si va a votare ed è necessario mantenersi equidistanti, ma perché è quello in cui crediamo profondamente.
Lo sfacelo in cui è precipitata la città non può essere ascritto a UN politico, a UN partito. Una visione semplicistica, pari all’ansia di attribuire capacità taumaturgiche al nuovo potente di turno. Salvo restare inevitabilmente delusi e abbandonarlo al suo destino, nel breve volgere di pochi mesi.
Meccanismo folle, che non genera crescita, ma l’avvitarsi della crisi.
Arriviamo, così, al diluvio di commenti di queste ore, improntati ad un’impotente nostalgia per il ponte andato a fuoco.
Capiamo tutto, ma non è il tempo delle dolci rimembranze, ma di lavoro collettivo. Di una presa di coscienza collettiva.
di Fulvio Giuliani
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