Mestre, cerchiamo colpe e troviamo la sorte
Mestre, cerchiamo colpe e troviamo la sorte
Mestre, cerchiamo colpe e troviamo la sorte
Era una vacanza. Doveva essere un momento di gioia, si è trasformato in una tragedia. C’erano turisti ucraini, tedeschi, francesi e croati a bordo del bus precipitato dal cavalcavia a Mestre. Non c’è una tragedia che sia peggiore dell’altra ma certo lascia sgomenti immaginare come il destino possa spazzare via tutto in un istante. Le risate, la felicità di una vacanza in Italia probabilmente a lungo sognata e finalmente realizzata. Pensiamo agli ucraini, scappati da una guerra e morti sotto un ponte in un Paese dove la guerra non c’è. Pensiamo a quel padre che ha tirato fuori la figlia dal finestrino di quello che era diventato soltanto un ammasso di lamiere. A quei soccorritori costretti a trasportare corpi senza vita di uomini, donne e bambini.
Le responsabilità, se ci sono, verranno accertate. Ora però è il momento del dolore, dell’incredulità. Su quel pullman che portava al campeggio di Marghera c’erano loro, ma poteva esserci chiunque. Non si può parlare d’altro che di destino crudele. Siamo abituati a cercare i colpevoli, com’è comprensibile. Soffermiamoci per oggi almeno sulle vittime e su coloro che hanno tentato, disperatamente, di dare una mano. Lì dove è avvenuto il disastro ci sono soltanto case popolari. Lì vivono due immigrati che sono stati fra i primi ad accorrere. Che hanno raccontato di aver sentito un rumore che sembrava un terremoto e poi le urla di chi chiedeva aiuto. A mani nude hanno tirato fuori una donna, una bambina, un cane. Hanno ascoltato le urla di un’altra donna che chiedeva di salvare la figlia. Una bimba forse di due anni e che però era priva di sensi. Non sanno, Boubakar e Godstime, se fosse viva o morta. L’hanno consegnata ai soccorritori: uno padre di un bimbo della stessa età di quella bambina, l’altro che padre lo è diventato da pochi giorni. Qualcuno ora li chiama “eroi”. Hanno fatto quello che potevano. Hanno provato ad aiutare persone che urlavano in un’altra lingua, ma la disperazione in fondo ha una lingua universale.
Il destino, dicevamo. Ha raccontato l’amministratore delegato della società che gestisce il servizio di pullman che quella corsa l’avevano prenotata in sedici. Poi sono saliti in molti di più. E ci sono anche quelli che avrebbero dovuto essere a bordo e invece hanno fatto tardi girando per Venezia. E quel ritardo è il motivo per cui oggi sono ancora vivi. Come in altre tragedie del recente passato, attimi che fanno la differenza fra la vita e la morte. Scelte apparentemente irrilevanti e che invece cambiano il destino. Quei turisti, la maggior parte molto giovani, sono esattamente come noi. A separarci oggi da loro è il fato. Drammi come questo colpiscono dritto nelle viscere perché raccontano di quanto tutto si riduca a un attimo. Senza voler essere retorici, perché poi in fondo vivere è non pensare che un attimo potrebbe cambiare tutto. Ma oggi, almeno oggi, pensiamo a loro. Ai quei bambini, morti o vivi ma magari senza più una famiglia. A quegli uomini e a quelle donne, partiti con una valigia carica di vestiti e sorrisi e che ora sono corpi avvolti in lenzuoli.
di Annalisa Grandi
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