La rassegnazione, il virus di Napoli
La rassegnazione, il virus di Napoli
La rassegnazione, il virus di Napoli
È un déjà vu angosciante. Soltanto una manciata di settimane fa ci trovammo a scrivere righe cariche di dolore dopo l’assurda morte del diciottenne Francesco Pio Maimone sul lungomare di Mergellina, a Napoli. Un ragazzo che pagò con la vita la criminale assurdità dei presunti ‘codici’ del rispetto malavitoso. Quando non c’è proprio alcun codice, alcun rispetto delle regole basilari della convivenza civile e di un sia pur minimo senso di umanità.
In queste ore ci ritroviamo a provare esattamente le medesime sensazioni di allora. E di un’infinità di altre volte per chi, come noi, a Napoli è cresciuto ed è stato testimone indiretto di una teoria di episodi incredibilmente simili fra loro. La folle sparatoria di Sant’Anastasia, in cui ha rischiato di perdere la vita una bambina di 10 anni insieme alla mamma e al papà, l’abbiamo ‘vista’ non sappiamo più quante volte. Una piccola che si è ritrovata nel reparto di rianimazione dell’ospedale pediatrico Santobono di Napoli, segnata nel corpo e chissà quanto in profondità nell’animo.
Basterebbe la cruda descrizione di quanto accaduto per indurci al più nero sconforto. Scegliamo però di correre il rischio di ripeterci, perché l’assuefazione è fra i grandi mali di Napoli. Un’assuefazione all’orrore, alla mancanza dei più elementari punti di riferimento civili che non è – come spesso nei quartieri “bene” della città ci si racconta per illudersi – un tema appannaggio esclusivo dei poveri disgraziati che vivono nelle zone più sfigate della città e dell’hinterland. Perché il fatalismo, il considerare statisticamente inevitabile il ripetersi prima o poi di simili episodi è un virus che accomuna tutti. Ricchi e poveri, borghesi e popolino, “chiattilli” e sbandati. Il senso di impotenza che, unito all’abitudine, porta tanti napoletani a reagire dicendo: «Tutto questo è vero, ma siamo anche la città del boom del turismo, della bellezza, della magnificenza della storia e ora pure dello scudetto». Come se bastasse, come se richiamare le glorie avesse una qualsiasi attinenza logica con quanto accaduto a Sant’Anastasia.
Come può un ragazzo di 17 anni decidere di sparare all’impazzata sulla folla per lavare l’‘onta’ di essere stato allontanato da un bar? Come può lo stesso diciassettenne avere a disposizione armi da fuoco automatiche e pistole? In quale razza di sottobosco dell’umanità dev’essere cresciuto? Tanto è vero che – puntando sulla minore età – la sua tribù l’ha prontamente portato a costituirsi. Mica per un sussulto di coscienza, ma soltanto perché consapevoli di poter limitare le conseguenze giudiziarie di questa follia. Non è neppure più un “anti-Stato”, è una dimensione parallela in cui la legge e la convivenza civile vengono semplicemente ignorate. Al massimo sfruttate, quando si finisce in guai troppo grandi.
Basta anche con l’uso di queste terminologie da fiction, come le “stese”: chi spara all’impazzata in un luogo affollato è soltanto il più squallido imbecille fra i criminali e chi l’ha allevato in questo modo non merita che umanissimo disprezzo.
di Fulvio GiulianiLa Ragione è anche su WhatsApp. Entra nel nostro canale per non perderti nulla!
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