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Perché potemmo chiamarli “liberatori”

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Il ricordo della strage di Gorla: una tragedia assoluta che, allora come oggi, possiamo analizzare razionalmente grazie alla Storia

Perché potemmo chiamarli “liberatori”

Il ricordo della strage di Gorla: una tragedia assoluta che, allora come oggi, possiamo analizzare razionalmente grazie alla Storia

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Perché potemmo chiamarli “liberatori”

Il ricordo della strage di Gorla: una tragedia assoluta che, allora come oggi, possiamo analizzare razionalmente grazie alla Storia

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Osservavo le immagini del presidente della Repubblica Sergio Mattarella davanti al monumento alle 184 innocenti vittime di Gorla, i bambini che morirono nel bombardamento alleato del 20 ottobre 1944 che distrusse la loro scuola nel quartiere periferico di Milano.
Una tragedia la cui memoria ha accompagnato generazioni di milanesi, sullo sfondo del secondo conflitto mondiale e della lotta al nazifascismo.

184 piccole vittime di un bombardamento americano eseguito male. Obiettivo erano gli impianti della Breda, ma entrambe le ondate di velivoli finirono fuori rotta e se la prima si disfece del carico di bombe in aperta campagna, la seconda lanciò sulla città centrando anche la scuola elementare. Tanti, tanti morti causati da chi stava combattendo per sconfiggere il mostro nazifascista e liberarci dall’incubo. Morirono 184 bambini, insieme a 19 insegnanti, al preside e a 5 ‘collaboratori scolastici’ – si direbbe oggi – sotto le bombe di uno dei tanti raid che martoriarono le nostre città, in special modo del Nord industriale ancora sotto occupazione tedesca.

Una tragedia assoluta che pure, allora come oggi, possiamo razionalmente inserire nel contesto che abbiamo ricordato, nei dolori che non hanno tempo o età ma che puoi in qualche misura provare a comprendere, senza voltarti dall’altra parte o dimenticare quei bimbi a cui la Guerra negò prima la felicità e poi la vita stessa.

Nel guardare il nostro Capo dello Stato in raccoglimento (purtroppo anche molti milanesi oggi hanno dimenticato o semplicemente mai conosciuto quei fatti e ancor meno si sono imbattuti in quel luogo e nella sua memoria), abbiamo pensato a un paradosso così forte quanto sostanzialmente apparente: come possiamo aver chiamato coscientemente “liberatori“ anche coloro che sganciarono per inerzia o criminale indifferenza quelle bombe, senza far rotta su zone disabitate?

Perché abbiamo saputo studiare la Storia, guardare la realtà e anche vedere come fosse andata a finire dall’altra parte della cortina di ferro.
Ciò non toglie, come naturale, neppure un grammo all’energia e alla forza d’animo necessarie a superare un trauma morale di questa dimensione. Così come vale sempre la pena ricordare quanto quest’ultimo – per quanto terribile – sia solo una frazione di ciò che avranno provato i tedeschi del dopoguerra ripensando al bombardamento di Dresda. O ai giapponesi colpiti per due volte dall’atomica, in città che non costituivano di fatto alcun obiettivo militare.

Il dolore e l’angoscia sono rimasti, ma anche la matura consapevolezza di quali orrori avessero perpetrato i regimi nati e sviluppatisi nei rispettivi paesi. Compreso il nostro.
Un senso di responsabilità e coscienza che vale la pena ristudiare in quest’epoca in cui troppi vogliono tagliare la realtà con l’accetta.

Di Fulvio Giuliani

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