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I caruggi di Genova dove l’unica legge è quella della strada

Pochi giorni fa nei caruggi di Genova un peruviano è stato ucciso con una freccia, l’unica legge è quella della strada. Chi vende droga non prova neanche a nascondersi e il terrore è negli occhi di residenti e commercianti
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I caruggi di Genova dove l’unica legge è quella della strada

Pochi giorni fa nei caruggi di Genova un peruviano è stato ucciso con una freccia, l’unica legge è quella della strada. Chi vende droga non prova neanche a nascondersi e il terrore è negli occhi di residenti e commercianti
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I caruggi di Genova dove l’unica legge è quella della strada

Pochi giorni fa nei caruggi di Genova un peruviano è stato ucciso con una freccia, l’unica legge è quella della strada. Chi vende droga non prova neanche a nascondersi e il terrore è negli occhi di residenti e commercianti
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Pochi giorni fa nei caruggi di Genova un peruviano è stato ucciso con una freccia, l’unica legge è quella della strada. Chi vende droga non prova neanche a nascondersi e il terrore è negli occhi di residenti e commercianti
Chi fra quei vicoli ci vive dice che è così da sempre. Che a volte a vincere è il senso di impotenza. E che di Genova si parla solo quando accadono tragedie come quella di pochi giorni fa. Quando ci scappa il morto: in questo caso un peruviano trafitto da una freccia scoccata da un residente. Nulla può giustificare un omicidio, ma raccontare cosa sono i caruggi significa immergersi in una realtà che non ti aspetti. Fra i vicoli del centro storico non importa che sia mattina o notte, lo scenario è sempre lo stesso: a ogni angolo trovi appostati spacciatori pronti a vendere un po’ di fumo, di crack o di eroina, che è tornata a scorrere prepotente visto che costa poco. E poi le prostitute, quelle cantate già da De André: c’erano allora e ci sono oggi, chine davanti alle loro case trasformate in alcove. Imperturbabili, aspettano i clienti davanti agli occhi dei turisti. Gli unici forse a stupirsi ancora, perché i genovesi lo sanno e ci sono abituati. Eppure non si dovrebbe mai fare l’abitudine all’abdicare della legalità, a intere zone di una bellissima città che diventano invivibili, dove l’unica legge è quella della strada. Non fotografare, non chiedere, non indignarsi. Perché i negozianti, i residenti, che convivono con lo spaccio a ogni ora del giorno e della notte, con i tossici che si appropriano di magazzini e sottoscala per trasformarli nei loro dormitori, hanno paura. Paura di non essere protetti, se denunciano. Paura di ritrovarsi poche ore dopo le stesse persone ancora davanti. Questi vicoli sono dedali, pieni di portoni sfondati e richiusi da lucchetti: dietro ci sono appartamenti e locali occupati abusivamente. Fianco a fianco con chi prova faticosamente a vivere una vita normale. Come un piccolo fruttivendolo che si è opposto a un gruppo di spacciatori che volevano derubarlo. E che per questo si è beccato una coltellata al polso. Ma, ci dice: «Noi qui dobbiamo vivere, se non lavoriamo non possiamo andare avanti». Eppure non dovrebbe essere così. Quartieri degradati ce ne sono in ogni grande città, il problema qui è che siamo in pieno centro: è inevitabile restare colpiti dal livello di illegalità, dal fatto che chi vende droga non provi neppure a nascondersi. Alle 8 di sera come alle 11 del mattino. Per una città che potrebbe vivere di turismo un danno enorme, per chi ci abita una situazione di tensione costante che non fa notizia eppure dovrebbe. Laddove in altre città c’è integrazione, qui c’è una netta separazione fra gli immigrati – soprattutto senegalesi e nigeriani – e il resto della cittadinanza. Non c’è amalgama, non c’è pacifica convivenza. Solo un cercare di sopportare fino al giorno successivo. Senza grandi speranze di cambiamento. Come una condanna già scritta. Eppure intervenire, quantomeno per gradi, significherebbe restituire lustro a una città che ha tutte le carte in regola per risplendere e non soffocare sotto quella che i residenti definiscono “una cappa”. E che lo è, a tutti gli effetti.   Di Annalisa Grandi

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