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Quando il giornalismo diventa ‘spettacolo’

C’era un tempo in cui fare giornalismo significava rifarsi a una specifica scala di princìpi. Purtroppo, quel giornalismo col passare degli anni è stato colpito da un brutto virus: la spettacolarizzazione. Esempio di tutto questo, suo malgrado, è Luigi Criscuolo.
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Quando il giornalismo diventa ‘spettacolo’

C’era un tempo in cui fare giornalismo significava rifarsi a una specifica scala di princìpi. Purtroppo, quel giornalismo col passare degli anni è stato colpito da un brutto virus: la spettacolarizzazione. Esempio di tutto questo, suo malgrado, è Luigi Criscuolo.
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Quando il giornalismo diventa ‘spettacolo’

C’era un tempo in cui fare giornalismo significava rifarsi a una specifica scala di princìpi. Purtroppo, quel giornalismo col passare degli anni è stato colpito da un brutto virus: la spettacolarizzazione. Esempio di tutto questo, suo malgrado, è Luigi Criscuolo.
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C’era un tempo in cui fare giornalismo significava rifarsi a una specifica scala di princìpi. Purtroppo, quel giornalismo col passare degli anni è stato colpito da un brutto virus: la spettacolarizzazione. Esempio di tutto questo, suo malgrado, è Luigi Criscuolo.
  C’era un tempo in cui fare giornalismo, in particolar modo d’inchiesta, significava rifarsi a una specifica scala di princìpi, primi tra tutti quelli della veridicità e della essenzialità; valori necessari per ricercare una cronaca onesta dei fatti, permettendo di arrivare al pubblico solamente grazie alla propria professionalità e alla volontà di fare sana informazione. Purtroppo, quel giornalismo col passare degli anni è stato colpito da un brutto virus, una sorta di Covid della ragione che ha spento sempre più la sua anima valoriale, per lasciare spazio al male del nuovo millennio: la spettacolarizzazione. Una ricerca spasmodica dello scoop, del sensazionale, a cui poco importa del lato umano dietro la notizia, arrivando a mietere spesso vittime tanto quanto gli stessi protagonisti della propria grottesca ‘cronaca’. Così avviene che giornali e trasmissioni trasformino fatti di vita in veri e propri reality show in cui aguzzini, vittime e rispettivi famigliari diventano protagonisti di discutibili ricostruzioni, pietose analisi psicologiche fatte da vicini e conoscenti e interviste fuori luogo farcite di improbabili domande. Un giornalismo, se così lo possiamo definire, il cui unico fine è fornire la “prossima puntata”, attirando audience, senza tener conto se quanto si riporta si possa rivelare un domani totalmente infondato. Ecco che allora le vere vittime – esseri umani con sentimenti e storie – non sono altro che mezzi per raggiungere uno scopo, arrivando a essere malamente categorizzate e classificate nei titoli dei giornali e nelle trattazioni tv: “una pensionata”, “uno studente dieci e lode”, “un muratore”, “una ragazza di origine africana”, come se il fatto di possedere queste caratteristiche o vivere in un certo modo debba portare automaticamente attenzione, biasimo o disinteresse in chi legge; come se le loro vite non abbiano lo stesso valore o non meritino la stessa attenzione; come a voler comunicare che ci sono notizie con protagonisti di prima fascia e altre con semplici comparse. Esempio di tutto questo, suo malgrado, è Luigi Criscuolo. Il suo nome dirà probabilmente poco, eppure il suo omicidio è uno dei fatti di cronaca più seguiti di questi mesi. Purtroppo però, stampa e tv hanno deciso che questo essere umano non meriti di essere chiamato col proprio nome, evidentemente ritenendo molto più riconoscibile il suo soprannome: “Gigi Bici”.   di Matteo Bizzotto Montieni

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