Si fa presto a dire Maranza
Quanto accaduto con la morte del giovane Ramy mostra come le soluzioni politiche, a destra e a sinistra, sui temi giovani e migranti siano lacunose
Si fa presto a dire Maranza
Quanto accaduto con la morte del giovane Ramy mostra come le soluzioni politiche, a destra e a sinistra, sui temi giovani e migranti siano lacunose
Si fa presto a dire Maranza
Quanto accaduto con la morte del giovane Ramy mostra come le soluzioni politiche, a destra e a sinistra, sui temi giovani e migranti siano lacunose
Quanto accaduto con la morte del giovane Ramy mostra come le soluzioni politiche, a destra e a sinistra, sui temi giovani e migranti siano lacunose
Il quartiere Corvetto di Milano, da tempo simbolo di dinamiche complesse legate alla marginalizzazione sociale, non è una banlieu. Non ne ha le caratteristiche storiche, sociali, persino geografiche e topografiche. È un quartiere multietnico e complesso, diventato anche terreno fertile per un fenomeno più ampio e diffuso: quello dei “maranza”. Ma chi sono i “maranza”?
Per le seconde generazioni, cresciute in bilico tra due culture – quella della famiglia e quella italiana – il senso di appartenenza diventa un dilemma esistenziale o l’ultimo rifugio. Anche quando la cultura d’origine può sembrare particolarmente distante per chi è nato e cresciuto da noi: si pensi alle ragazze, più sospese di tutti.
Il Corvetto, come altri quartieri, diventa un microcosmo in cui si intrecciano minori possibilità lavorative – se non condizioni di povertà – esclusione sociale e dinamiche identitarie complesse. Taluni ragazzi, per lo più maschi, scelgono di ‘distinguersi’ con un abbigliamento vistoso, atteggiamenti provocatori e un linguaggio che mescola slang italiano e dialetti familiari. L’ostentazione, l’aggressività apparente o reale sono strumenti per affermare la propria presenza. Chiedete ai vostri figli, se ne avete in età da scuole superiori soprattutto nel milanese, è come se dicessero: “Siamo qui, anche se non ci volete vedere”.
Come rispondere? Secondo noi, la soluzione non è quella proposta né dalla destra né dalla sinistra più ideologizzate. Da destra si chiede repressione, nell’accezione più identitaria del “legge e ordine”. Si parte dall’assunto che questi ragazzi rifiutino la nostra società, la nostra cultura e le nostre regole. Da sinistra, si oppone la retorica dell’accoglienza fatta di rispetto acritico delle istanze culturali che emergono dalle comunità di immigrati, in una sorta di espiazione di tutte le colpe storiche dell’Occidente bianco.
Sono due “soluzioni” che escludono alla radice l’elemento fondamentale di una reale integrazione: offrire opportunità e trasferire la sensazione tangibile di poter far parte di una comunità portando in dote i propri talenti e le proprie specificità. Così come i seicento poliziotti in più annunciati in arrivo a Milano sono utilissimi ma non si può certo chieder loro di accelerare l’integrazione.
Si deve passare dalla scuola, dove non tutti i figli di immigrati sono “maranza” (anzi!) e molto più spesso sono esempi di fame di vita, crescita, riscatto e decollo sociale. Solo che far funzionare la scuola a vantaggio di tutti significa renderla più meritocratica e selettiva.
Orribile dictu per i sacerdoti dell’egualitarismo peloso, quello secondo cui se nasci fortunato invocherai la scuola buonista, guardandoti bene dall’iscrivervi i figli.
Andatevi a leggere i cognomi di chi ha fondato i colossi delle big tech e troverete echi di Paesi lontanissimi dalla Silicon Valley. Ci chiediamo perché mai dovremmo rinunciare a costruire un futuro diverso e di maggiori ricchezze per tutti.
Di Fulvio Giuliani
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