Stefano Conti: “Ho capito che cos’è l’orrore”
Stefano Conti: “Ho capito che cos’è l’orrore”. L’odissea di un cittadino italiano, assolto dopo 423 giorni in un carcere di Panama

Stefano Conti: “Ho capito che cos’è l’orrore”
Stefano Conti: “Ho capito che cos’è l’orrore”. L’odissea di un cittadino italiano, assolto dopo 423 giorni in un carcere di Panama
Stefano Conti: “Ho capito che cos’è l’orrore”
Stefano Conti: “Ho capito che cos’è l’orrore”. L’odissea di un cittadino italiano, assolto dopo 423 giorni in un carcere di Panama
Ci sono storie più complicate di altre da raccontare perché inaccettabili, ingombranti, in apparenza inverosimili. Cercare di capirle fino in fondo richiede di mettere da parte pregiudizi e luoghi comuni. Quella di Stefano Conti è una di queste: a volersi basare solo sulle poche righe che i media hanno dedicato qualche settimana fa alla sua assoluzione con formula piena da un’accusa pesantissima, in un tribunale di Panama, sarebbe stato facile dimenticarsene. In realtà dietro quella sentenza per un cittadino italiano all’estero c’è una storia spaventosa. Farsela raccontare da lui stesso è il modo migliore per calarcisi dentro fino a sporcarsene le mani.
Stefano Conti ha 40 anni, è originario di Cesano Maderno (Monza e Brianza). Ci parla da Panama City, che detta così fa pensare soltanto a un paradiso esotico e fiscale. Ma per lui – trader professionista – è il luogo in cui sta vivendo il peggior incubo della sua vita: essere arrestato da innocente con l’accusa di tratta di persone a fini sessuali e finire rinchiuso in una delle carceri più degradate del pianeta.
«Sono arrivato qui a Panama sette anni fa. Avevo poco più di 30 anni, uscivo da un divorzio, volevo andarmene dall’Italia. Ho girato tanto. Potendo contare su molti soldi ho fatto la bella vita in Centro America, poi alla fine mi sono fermato a Panama City». Single, piacente, ricco, Conti trova il Bengodi: «Comincio a frequentare gente giusta e con tanti soldi. Quando capiscono che lavoro faccio, diventano miei clienti e non mi lasciano più. Amo divertirmi e nel Paese la prostituzione è legale: ci siamo capiti».
Quattro anni così, poi il giorno di Ferragosto del 2022 il vento gira. Mentre sta imbarcandosi su un aereo lo arrestano: «Scopro di essere accusato di aver promosso, diretto e finanziato la prostituzione. Alcune ragazze colombiane hanno fatto il mio nome come di colui che le ha aiutate a venire a Panama per prostituirsi». Finisce così a “La Joya”: non un carcere, ma la dimensione stessa dell’orrore. «Quando arrivo al portone, una guardia mi chiede: “Da chi stai andando?”. Non capisco, ma la frase successiva mi spiega tutto: “Se non conosci nessuno, sappi che qui rischi la vita…”».
Raccontare quel che si vive lì dentro non è facile: «In cella si sta in almeno 25 persone. Una sola doccia, una sola latrina. Niente acqua né per lavarsi né per bere: soltanto quella piovana. Si dorme sui cosiddetti bunker, blocchi di cemento che non bastano per tutti: i più anziani hanno il posto garantito, gli ultimi arrivati si accomodano in terra. È pieno di scarafaggi enormi che ti camminano addosso, la notte ti senti mordere i capelli dai topi. Lì dentro ho preso la scabbia».
È il girone dei corrotti: «Per mangiare qualcosa, devi pagare; per bere acqua in bottiglia, idem. Se sono sopravvissuto è solo perché grazie al mio lavoro avevo tanti soldi da parte: ho comprato le medicine, ho comprato un cellulare con cui ho filmato tutto quello che vedevo, nella speranza che tramite i miei social il mondo vedesse quello scempio». Di tanto in tanto le guardie irrompono per spedizioni punitive: «Spaccano tutto, sparano bombe lacrimogene e piombini al peperoncino, sequestrano i cellulari che tanto poi saranno loro stessi a rivenderti al mercato nero. Nei 423 giorni che ho passato lì dentro ho assistito a sparatorie fra detenuti e a omicidi. Droga, telefoni e armi circolano liberamente».
Come si resiste? «Istinto di sopravvivenza. Ma mi sento un miracolato, stavo impazzendo. Mai pensato al suicidio: non c’è tempo, sei troppo occupato a difenderti da chi vuole farti la pelle anche solo per il fatto che gli stai antipatico».
Nelle 25 udienze del suo processo si è sentito abbandonato: «Rischiavo 30 anni e il personale della nostra Ambasciata ha presenziato soltanto verso la fine. La comunità italiana locale mi ha ignorato, lo stesso hanno fatto i media. Soltanto lo youtuber Alessandro Della Giusta ha voluto davvero capire cosa mi stesse succedendo. Il mio è stato un processo prefabbricato: in aula le ragazze hanno ritrattato le accuse nei miei confronti, spiegando di essere state minacciate dalla polizia in quanto straniere senza permesso nel Paese.
Non mi hanno neanche denunciato: anzi, hanno denunciato le autorità. I primi avvocati locali che mi hanno assistito erano corrotti e incapaci. Quando sono stato assolto pensavo fosse finita. Volevo tornare in Italia, ma l’accusa ha fatto ricorso in appello. E finché non si risolve questo nodo, sono costretto a restare qui. Nella speranza che, prima o poi, grazie anche alle pressioni dei miei avvocati Valter Biscotti e Vincenzo Randazzo, le nostre autorità diplomatiche facciano finalmente qualcosa per farmi tornare a casa. Perché sono innocente».
Di Valentino Maimone
La Ragione è anche su WhatsApp. Entra nel nostro canale per non perderti nulla!
Leggi anche

Saman Abbas, in appello ergastoli per i genitori e i cugini. 22 anni allo zio

Insulti choc ad arbitra in Umbria: “Devi fare la fine di Ilaria Sula!”

Spiderman porta la Pasqua ai bambini ricoverati: la sorpresa al Policlinico di Milano
