Prima tutta la trafila per l’adozione, dopo cinque giorni il ripensamento. Neanche un figlio fosse un giocattolo. Fa riflettere, in questi giorni di polemiche su diritti delle coppie e maternità surrogata, la vicenda di un ragazzo adottato dal Brasile nel 2007 da una coppia del cremonese. Lui all’epoca aveva dieci anni. Peccato che, una volta arrivati in Italia, dopo meno di una settimana i genitori adottivi siano andati dal sindaco del Comune in cui vivevano per chiedere di rinunciare all’adozione. Peccato che il bimbo fosse già con loro. Sostenevano che non fosse valida, perché non ancora ratificata in Italia. Ma con un atto del tribunale brasiliano era valida eccome.
Oggi, dopo anni e dopo essere passato prima di comunità in comunità e aver poi trascorso un’adolescenza travagliata ed essere finito anche in carcere, quel ragazzo ha fatto causa a quelli che avrebbero dovuto essere i suoi genitori. Vincendola. Sono stati infatti condannati a tre mesi di reclusione per avergli fatto mancare i mezzi di sussistenza e a un risarcimento di 10mila euro. Certo simbolico – considerato il trauma di un bimbo che già arrivava da un’infanzia difficile e che si è ritrovato abbandonato in un Paese straniero – ma importante per il messaggio che trasmette.
Una vicenda che deve far riflettere quando si ragiona di diritti e di rivendicazioni, in qualsiasi senso. Perché sempre, prima di tutto, un figlio è una responsabilità. E questo a prescindere dall’orientamento sessuale.
Di Annalisa Grandi
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