Da Zanussi a Wallenberg, marchi storici dalla provincia alle multinazionali
Chi c’era, quel 14 dicembre 1984, la ricorda come una giornata gelida, grigia. Ma la firma su quell’intesa, che consentì alla Zanussi di evitare il default, fece brillare lo spiraglio di una nuova speranza
Da Zanussi a Wallenberg, marchi storici dalla provincia alle multinazionali
Chi c’era, quel 14 dicembre 1984, la ricorda come una giornata gelida, grigia. Ma la firma su quell’intesa, che consentì alla Zanussi di evitare il default, fece brillare lo spiraglio di una nuova speranza
Da Zanussi a Wallenberg, marchi storici dalla provincia alle multinazionali
Chi c’era, quel 14 dicembre 1984, la ricorda come una giornata gelida, grigia. Ma la firma su quell’intesa, che consentì alla Zanussi di evitare il default, fece brillare lo spiraglio di una nuova speranza
Chi c’era, quel 14 dicembre 1984, la ricorda come una giornata gelida, grigia. Ma la firma su quell’intesa, che consentì alla Zanussi di evitare il default, fece brillare lo spiraglio di una nuova speranza
Parafrasando un noto cantautore, «questa è la storia di» una delle nostre aziende familiari. Con la quale i Wallenberg (per chi non lo ricordasse, ‘gli Agnelli svedesi’ ispiratori anche del romanzo di Stieg Larsson “Uomini che odiano le donne”) sono diventati i leader mondiali degli elettrodomestici. Il tutto grazie all’operato di un manager come Gian Mario Rossignolo, con precedenti esperienze in Fiat: per un breve periodo fu poi presidente di Telecom Italia all’epoca del ‘nocciolino’ torinese, mentre più avanti venne coinvolto nel mancato rilancio della De Tomaso.
Chi c’era, quel 14 dicembre 1984, la ricorda come una giornata gelida, grigia. Ma la firma su quell’intesa, che consentì alla Zanussi di evitare il default, fece brillare lo spiraglio di una nuova speranza: Pordenone era salva (dopo che pure la Fiat si era ritirata). Fu però anche la prima tappa della (s)vendita ai colossi stranieri di tanti gioielli in un settore che ha visto leader per decenni il family business made in Italy, dai Borghi ai Fumagalli ai Merloni in avanti. Solo qualche citazione, a caso, per capire come si sta ridisegnando il settore degli elettrodomestici: Candy-Hoover-Haier, Ignis-Ariston-Whirlpool-Beko (con i turchi che oggi licenziano 2mila persone). Analizzando le mosse del ‘Risiko bianco’ europeo, non dobbiamo però dimenticare le tendenze di fondo di quest’industria che (purtroppo) sta sempre di più assomigliando alla produzione di una commodity, fatta eccezione per la gamma alta nella quale spicca la presenza tedesca.
Quarant’anni fa Electrolux era un’azienda di modeste dimensioni (specie se rapportata al colosso italiano) nota per gli aspirapolvere. Ma divenne comunque primo azionista del gruppo. L’operazione, perfezionata dopo una trattativa durata mesi, mise la parola fine anche ai timidi tentativi di salvataggio made in Italy mai perfezionati, segnando l’inizio di una nuova storia. Quella firma, apposta quel venerdì in via Cattaneo a Pordenone, segnò anche la nascita del primo produttore mondiale di elettrodomestici. A quattro decenni dall’acquisizione vale forse la pena ricordare che fu un punto di svolta per l’intera industria degli elettrodomestici italiani. Ma anche il preludio di ciò che accade oggi e, allo stesso tempo, il presupposto di ciò che potrebbe accadere domani.
Protagonista di una crescita tumultuosa compiuta soprattutto per acquisizioni, la Zanussi arrivò a quell’appuntamento schiacciata dai debiti. Il gioiello di Pordenone nacque da una piccola impresa artigiana produttrice degli spolert, come in dialetto friulano si chiama quella cucina economica a legna incassata in una muratura realizzata in mattone (una specie di stube in miniatura). L’azienda, diventata grande sotto la guida di Lino Zanussi (prematuramente scomparso nel 1968), spaziava già dalle lavatrici ai frigoriferi, dal ‘bruno’ ai grandi impianti, con oltre 30mila dipendenti sparsi in una cinquantina di stabilimenti produttivi prevalentemente in Italia e una presenza anche in Spagna. Il fatturato annuo si aggirava attorno ai 1.500 miliardi di lire. Ma il conto economico risultava in profondo rosso, con un indebitamento di poco inferiore ai ricavi.
L’acquisizione da parte di Electrolux fu quindi la cosa migliore che potesse accadere. In quel periodo era chiaro che soltanto l’entrata in un grande gruppo avrebbe potuto salvare la Zanussi. Fu una buona opzione. Con nessun altro compratore dopo decenni avremmo ancora i quattro stabilimenti (Porcia, Susegana, Solaro e Forlì) con i relativi centri di innovazione (ai quali si sono aggiunte le cappe per cucina di Cerreto d’Esi e il settore Professional). Fu un errore, invece, abbandonare la componentistica per ottenere tagli di costo nel breve periodo e rottamare alcuni marchi storici ben radicati nel territorio.
di Franco Vergnano
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