Da un biennio l’indice migliora. E allora Gini diventa un tabù
Esiste un termometro – l’indice di (Corrado) Gini – che misura il rischio di povertà e le disuguaglianze, riassumibili nella definizione di “povertà relativa”
| Economia
Da un biennio l’indice migliora. E allora Gini diventa un tabù
Esiste un termometro – l’indice di (Corrado) Gini – che misura il rischio di povertà e le disuguaglianze, riassumibili nella definizione di “povertà relativa”
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Da un biennio l’indice migliora. E allora Gini diventa un tabù
Esiste un termometro – l’indice di (Corrado) Gini – che misura il rischio di povertà e le disuguaglianze, riassumibili nella definizione di “povertà relativa”
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Esiste un termometro – l’indice di (Corrado) Gini – che misura il rischio di povertà e le disuguaglianze, riassumibili nella definizione di “povertà relativa”
L’Italia ha molti guai ma a ogni verifica le cose vanno meglio del previsto. Nel 2022 la crescita del Pil sfiora il 4%. Molte aziende non trovano manodopera idonea al salto di qualità che le nuove tecnologie impongono. Certo, camminiamo sul filo del rasoio di un debito pubblico molto elevato e la spesa per interessi si avvia a salire al primo posto di quella corrente. In più le pensioni sono diventate una variabile indipendente. Sembra che il nuovo governo abbia capito l’antifona e proceda con cautela. Ma la narrazione che viene fatta (specie in tv) è quella di un Paese allo stremo. Contano solo le cattive notizie. Quelle buone vengono ignorate.
Esiste un termometro – l’indice di (Corrado) Gini – che misura il rischio di povertà e le disuguaglianze, riassumibili nella definizione di “povertà relativa”. Questo indicatore rappresenta la classica misura della distribuzione del reddito e suscita alti lai ogni volta che peggiora; non viene invece quasi mai citato quando migliora. L’indice di Gini è uguale a zero quando i redditi sono equidistribuiti e a 1 quando vi è massima disuguaglianza (la scala è 0-100 se espressa in percentuale). Da un biennio l’indicatore migliora. Un anno fa aveva segnalato la riduzione della disuguaglianza di 14,1 punti percentuali: da 44,3 punti a 30,2.
Nei giorni scorsi l’Istat ha certificato altri passi avanti ma solo qualche mosca bianca ha commentato la vicenda, da sempre idolatrata dalla sinistra con squilli di tromba quando peggiora. Per il resto silenzio, forse perché “politicamente scorretto”. Per fare notizia – lo sappiamo – dev’essere l’uomo a mordere il cane. Al di là dei numeri, è però interessante chiarire che non sempre il calo della disparità è un fatto positivo: quando c’è crescita, le distanze tendono addirittura ad aumentare. Spetta poi al governo attuare politiche redistributive per dividere meglio la torta.
Com’è stato possibile questo risultato, raggiunto dopo una sfilza di sciagure (Covid, guerra, ecc.) piovute dall’esterno sui sistemi economici e sui mercati internazionali? La politica dei massicci interventi pubblici a sostegno delle famiglie e delle imprese ha funzionato, nel senso che gli indici di povertà sono risultati inferiori rispetto a quanto ci si poteva attendere dal crollo del Pil a causa delle misure di contenimento dell’emergenza sanitaria. Sia i sussidi monetari pubblici (quelli esistenti e quelli introdotti durante l’emergenza: si vedano i decreti Aiuti del governo Draghi) sia il minore ammontare dovuto per imposte e contributi sociali hanno molto sostenuto il reddito disponibile delle famiglie, contrastando il notevole calo dei redditi da lavoro e di quelli da proprietà. Nel 2020 – annus horribilis del Covid – il reddito reale delle famiglie è diminuito in termini pro capite dell’1,8% rispetto al 2019, ma sarebbe caduto del 6,8% senza l’accresciuto intervento redistributivo del bilancio pubblico.
Di Giuliano Cazzola e Franco Vergnano
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