Il fatto che il consiglio uscente di una società quotata possa ricandidarsi è una scorciatoia verso l’autoproclamazione. Si sarebbero dovuti dare maggiori strumenti ai sindaci
Astraendoci dalle questioni contingenti, relative alla disputa su Mediobanca e Generali, la prassi relativa alla presentazione di liste del consiglio, per il rinnovo dell’organo amministrativo delle società quotate, è aberrante. Il fatto che il consiglio uscente di una società quotata possa ricandidarsi è una scorciatoia verso l’autoproclamazione e l’unanimismo di stampo sovietico. Inaccettabile. Laddove esiste un azionista di riferimento del capitale controllante la società, ovvero un soggetto che ha investito del danaro proprio, dovrebbe essere egli stesso a formulare la proposta dei nomi da candidare davanti all’assemblea degli azionisti. Lasciare che i manager o, peggio ancora, che i consiglieri indipendenti si rinnovino tacitamente in blocco non fa bene al mercato e men che meno alle società.
In realtà quasi tutta la normativa di più recente emanazione è frutto di un’attività lobbistica fortemente distorsiva, che ha introdotto un livello di ipocrisia che corrode i meccanismi delicati della governance societaria, con il paradossale pretesto di tutelarli. Il fatto stesso che si presentino delle liste bloccate è un errore. In una Spa non si ragiona per maggioranze di pensiero, anche perché l’oggetto è già definito a priori: fare profitti. Aver mutuato dalle cooperative il principio delle liste bloccate, dove ogni testa ha un voto, ha fatto il gioco degli amministratori indipendenti e di Assogestioni, la loro principale agenzia di collocamento. Ovvero un’altra delle aberrazioni del nostro sistema di governance. In Italia abbiamo il collegio sindacale, che funziona molto bene e ha le competenze necessarie per svolgere i compiti che si pretende oggi di affidare a consiglieri, presunti indipendenti. I consiglieri indipendenti sono una derivazione dal diritto Usa, ma in America, non avendo un collegio sindacale, è comprensibile che vi ricorrano. Si sarebbero dovuti dare maggiori strumenti ai sindaci, le cui competenze professionali sono mediamente molto più alte di quelle di amministratori indipendenti che il più delle volte non hanno le qualifiche e le esperienze necessarie per sedere nei cda dove stanno.
È un errore drammatico quello di voler trasferire poteri decisionali su chi dovrebbe solo vigilare e controllare le procedure. Prova ne sia che non si ha memoria di posizioni innovative o anche solo critiche, da parte degli indipendenti, verso alcuna società quotata, come se tutto filasse sempre liscio e nessuno avesse nulla da ridire. Hanno soltanto l’obiettivo di non decidere, non assumersi responsabilità e pararsi le spalle. Senza contare che nel nuovo Codice è previsto che l’amministratore non abbia più neppure il dovere di vigliare ma solo «di agire informato». E da chi acquisisce le informazioni? Dall’amministratore delegato. Figuriamoci che controlli incisivi possano fare i consiglieri indipendenti, che nulla sanno del business, se li istruisce l’ad dell’azienda.
Basti vedere come funzionano i comitati nomine, popolati da indipendenti: qualcuno crede alla fiaba che le nomine siano frutto del pensiero e della volontà del comitato? E i comitati remunerazione come funzionano? Possibile che lor signori indipendenti trovino sempre il modo di pagare buonuscite milionarie ad amministratori delegati che spesso hanno lavorato poco e male? Gli indipendenti consentono queste storture perché così si garantiscono la ricandidatura al prossimo giro. Quindi sono indipendenti da cosa? Dal bene della società, questo è poco ma sicuro.
Ben venga quindi la fine di questa abominevole procedura autoreferenziale e sia l’azionista di riferimento a fare le proposte, affrontando i problemi delle candidature con il coraggio e la determinazione che servono e che gli compete.
di Bancor
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