Made in Italy
Made in Italy
Made in Italy
Si fa un gran ed eccessivo parlare di Made in Italy negli ultimi giorni, spesso a sproposito. L’espressione viene utilizzata come fosse un brand in sé stesso, il che è un errore. Made in Italy è un potente richiamo – indiscutibilmente anche di carattere emotivo e puro fascino – ma pur sempre legato a una solidissima realtà produttiva di carattere manifatturiero. Non dimentichiamolo mai.
Nella lista dei 100 maggiori brand al mondo in termini reputazionali, stilata come ogni anno da RepTrak, sono sette i marchi italiani presenti: in ordine di apparizione, Ferrari 13ª, Pirelli 15ª, Ferrero 30ª, Barilla 33ª, Lavazza 44ª, Giorgio Armani 47ª e Prada 99ª. I nomi certo non sorprendono, costituendo da sempre il meglio del meglio della nostra industria meccanica, alimentare e della moda. In realtà la graduatoria – che come tutte le classifiche è determinata da parametri che non sono il Vangelo – denuncia anche debolezze in determinati settori (nell’It e nei servizi i nostri “unicorni” sono ben pochi), ma il Made in Italy resta un organismo profondamente vitale e variegato.
La proposta della creazione di un “Liceo del Made in Italy” non ci scandalizza e non crediamo sia proprio necessario urlare per questo al rischio autarchico – ben diversa la faccenda di talune, bislacche proposte in difesa della lingua italiana – ma per la natura stessa della nostra manifattura fatichiamo a capire cosa si dovrebbe mai insegnare in questo ipotetico liceo. Siamo leader nei settori appena citati, ma anche in una miriade di nicchie, gran parte delle quali del tutto ignote al grande pubblico. Preferiremmo una battaglia culturale con cui ribaltare la soffocante narrazione degli ultimi anni, in base alla quale il nostro Paese si sarebbe irrimediabilmente gettato alle spalle il meglio di sé. Non è vero, a patto di sapere cosa rappresenti l’Italia a livello economico sul palcoscenico mondiale. Quali siano i nostri tanti punti di forza, che talvolta sfociano anche in debolezze strutturali, come la storica idiosincrasia per il saper fare sistema. Riconoscere nelle fusioni e nel coraggio delle acquisizioni un antidoto al problema dimensionale che con il passare del tempo rischia di divenire ostacolo insormontabile per alcune delle nostre eccellenze.
Come si accennava, non siamo un’economia di servizi, anche se dispiace per taluni errori storici commessi negli ultimi decenni. Si pensi alla telefonia, settore nel quale siamo ormai solo un gigantesco mercato per player stranieri. Nella manifattura, però, restiamo un’eccellenza assoluta, sempre più incentrata su qualità e ricerca: è un terreno esaltante ma difficilissimo in cui giocare la nostra partita. Incompatibile con visioni provinciali, anacronistiche e di parte.
Per stare solo alla stretta attualità, il problema non è inventarsi un nuovo liceo ma far funzionare molto meglio quelli che abbiamo. Non lanciare crociate in difesa dell’italiano, ma approfondirne studio e conoscenza in parallelo con un uso ben più massiccio dell’inglese fra ragazzi e adulti. Non basta il Ministero del Made in Italy, di quest’ultimo bisogna fare un elemento di consapevolezza per l’intera comunità e un punto d’approdo per i nostri migliori talenti. Altro che stanca ripetizione dei soliti allarmi sulla “fuga dei cervelli”: facciamo scoprire ai nostri ragazzi quali tesori si celano dietro quei sette brand conosciuti in ogni angolo della Terra.
di Fulvio GiulianiLa Ragione è anche su WhatsApp. Entra nel nostro canale per non perderti nulla!
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