Dal Made in Italy al Made by Italians
Nella storia industriale c’è stato un tempo in cui le grandi aziende, come Fiat, facevano quasi tutto in casa. Oggi, al made in Italy si sta sostituendo il made by Italians
Dal Made in Italy al Made by Italians
Nella storia industriale c’è stato un tempo in cui le grandi aziende, come Fiat, facevano quasi tutto in casa. Oggi, al made in Italy si sta sostituendo il made by Italians
Dal Made in Italy al Made by Italians
Nella storia industriale c’è stato un tempo in cui le grandi aziende, come Fiat, facevano quasi tutto in casa. Oggi, al made in Italy si sta sostituendo il made by Italians
Nella storia industriale c’è stato un tempo in cui le grandi aziende, come Fiat, facevano quasi tutto in casa. Oggi, al made in Italy si sta sostituendo il made by Italians
Nella storia industriale c’è stato un tempo in cui le grandi aziende, come Fiat, facevano quasi tutto in casa. E anche chi procurava loro i materiali complementari andava a traino, vedi Pirelli con lo stabilimento di pneumatici alle porte di Torino. Poi sono arrivati gli esperti Usa di management a spiegare i vantaggi del make or buy – teorizzando la convenienza di acquistare da fornitori esterni – fino al moderno outsourcing che completava la ‘deverticalizzazione’ e faceva uscire dai cancelli della fabbrica anche i servizi, dai centralini ai trasporti e alla logistica.
Oggi, al made in si sta sostituendo il made by: un modello produttivo secondo cui la testa pensante dell’azienda rimane nella sede originaria ma la manifattura diventa ad assetto variabile, a seconda delle convenienze. È qui che possiamo giocare le nostre carte. Si aprono opportunità per il made by Italians, a rischio però di perdere le company town, ovvero le città dove una parte rilevante degli abitanti trovava occupazione per una grande impresa locale. È il caso di Torino-Mirafiori-Rivalta, ridimensionate da Stellantis e finora incapaci di trovare nuove attività a valore aggiunto. Un (piccolo) esempio in positivo arriva invece da Venezia, dove Crash Baggage ha conquistato mezzo mondo (Asia compresa) con trolley super innovativi, di design e al grido di: «Radici glocal, produzione e mercati internazionali».
La storia economica ha lavorato parecchio studiando prima l’impatto sul territorio e poi l’evoluzione nel tempo delle company town. Lo stesso si può dire per i distretti industriali: dalle piastrelle di Sassuolo (studiate da Romano Prodi, ma anche dal guru di Harvard Michael Porter come esempio di vantaggio competitivo) al laniero di Biella, fino ai prosciutti di San Daniele del Friuli esportati e conosciuti anche negli Usa. Senza dimenticare che cosa ha voluto dire il cappello di feltro Borsalino per Alessandria, iconico al punto da ispirare un film degli anni Settanta con Jean Paul Belmondo e Alain Delon. E si potrebbe continuare: nel Nord-Est la città di Valdagno è stata a lungo associata alla Marzotto; Torviscosa è nata grazie all’insediamento della Snia Viscosa; Agordo è ancora oggi sinonimo di Luxottica. E Benetton ha per alcuni decenni collocato Treviso nella mappa internazionale dell’abbigliamento.
Negli ultimi lustri la transizione dall’economia industriale a quella della conoscenza e la globalizzazione hanno messo in crisi il modello. Un caso di successo di made by arriva da La Coruña: la centralità della città spagnola è garantita dal più grande gruppo di fast fashion al mondo, Inditex. Se è poco noto il suo fondatore, Amancio Ortega, è invece universalmente conosciuto il brand di punta, Zara. I cui vestiti sono prodotti al di fuori della Spagna mentre a La Coruña è stata mantenuta la testa del gruppo, insieme con le abili mani di designer e prototipisti che alimentano il modello di fast fashion alla base del successo planetario.
di Franco Vergnano
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